Utopie e in-formazione

di Guido Grossi

Viviamo nella migliore delle società possibili? Il progresso è sinonimo di miglioramento? Abbiamo più

libertà oggi di quante non ne avessimo in passato? Sono domande alle quali la sensibilità comune tende a

dare risposte scontate: oggi siamo finalmente liberi, le grandi democrazie occidentali garantiscono i nostri

diritti fondamentali, concorriamo alla vita pubblica attraverso libere elezioni e così via. Di contro,

guardiamo al passato con un misto di sollievo e timore: che fortuna non essere vissuti ai tempi dei faraoni,

o nell’antica Roma, o nel Medioevo! Certo, le condizioni della nostra esistenza sembrano migliorate,

almeno a giudicare dall’allungamento dell’aspettativa di vita. La medicina ha fatto passi da gigante, la

tecnologia anche di più. Ma siamo più felici oggi di quanto non lo fossimo qualche secolo addietro? Questa

è la domanda fondamentale: qual è l’obiettivo della nostra esistenza? Avere 23 gradi in casa tutto l’anno,

rinchiusi il più a lungo possibile in una prigione dorata, o vivere serenamente, in armonia con il creato e con

la nostra specie, il tempo che ci è stato regalato su questa Terra? A ben vedere, tutte le domande in

apertura di questo articolo possono essere messe in discussione. Siamo sicuri, ad esempio, di vivere in una

democrazia compiuta? Winston Churcill, nel 1947, disse che la democrazia è la peggior forma di governo,

ad eccezione di tutte la altre. Sta di fatto che alla base di una democrazia ci sono i diritti politici, i quali si

fondano a loro volta sulla libertà di scelta dei cittadini, che prende corpo nel diritto di voto, che poi a sua

volta deve sostanziarsi in una concreta attuazione dei programmi che hanno ottenuto una maggioranza.

Tutto il castello crollerebbe se la scelta che esprimiamo alle urne non fosse libera. E quand’è che si sceglie

liberamente? Quando si hanno tutte le informazioni utili a formulare un giudizio. Tutto nella nostra vita è

informazione, sin dai tempi in cui i primi uomini, per sopravvivere, dovevano sapere con precisione dove

sarebbero passati i branchi di bisonti, perché se avessero avuto informazioni sbagliate sarebbero morti di

inedia. Allo stesso modo l’uomo moderno occidentale deve conoscere quante più informazioni possibili sul

suo paese, sulle istituzioni che lo amministrano, sugli uomini che le presiedono, su quelli che si candidano a

sostituirli, sui problemi che affliggono l’economia, il lavoro, l’ambiente, le politiche sociali, la salute e su

come risolverli. Se queste informazioni fossero manipolate, per la convenienza dei pochi a discapito dei

molti, allora la scelta sarebbe falsata, teleguidata, sbagliata, illusoria, dannosa. Però, da Heisenberg in poi

sappiamo che non esiste informazione senza manipolazione: l’osservatore cambia ciò che sta guardando, e

dunque quello che racconta non è altro che la sua personale rappresentazione della realtà. Forse non esiste

una verità assoluta, dunque, ma tante verità che rappresentano le angolazioni parziali dalle quali si guarda

il mondo. Così come la luce bianca, tuttavia, è composta da tutte le frequenze luminose sommate le une

alle altre, la migliore approssimazione della verità allora non può che passare attraverso la pluralità delle

fonti di informazione. Non a caso l’articolo 21 della nostra Costituzione garantisce la libertà di pensiero e di

parola, cioè la libertà di espressione che si deve ad ogni singola opinione. E da dove passano tutte le nostre

informazioni, oggi? Sono “plurali”? Per lungo tempo ci siamo informati attraverso un medium piramidale,

verticistico, appannaggio di pochi, da subire passivamente: la televisione, veicolo elettivo della propaganda.

La televisione ha sostituito quello che per gli antichi greci era l’Olimpo, e gli opinionisti dei talk show hanno

preso il posto delle divinità. Dopo la costituzione dei grandi network televisivi, dalla metà del secolo scorso

in poi, non siamo stati mai liberi. Se allora ci ponessimo di nuovo la domanda iniziale, “abbiamo più libertà

oggi di quante non ne avessimo in passato?”, forse dovremmo convenire che rispetto ad altre epoche

storiche, dove la comunicazione tra le persone era diretta, oggi viviamo in una immensa caverna di Platone

controllata da chi ha idonei mezzi finanziari, e che questo ci rende tutti molto poco liberi di scegliere. Certo,

da qualche anno è arrivata internet, la più grande rivoluzione dell’informazione dopo Gutenberg, ma i

tentativi di infiltrarla e censurarla sono innumerevoli e molto insidiosi. Sta ad ognuno di noi rivendicare e

difendere la pluralità delle fonti e, soprattutto, avocare a sé il diritto incomprimibile di ragionare fuori dagli

schemi, secondo il nostro insindacabile giudizio. Ogni volta che ci viene detto che non siamo in grado di

capire, che dobbiamo fidarci di altri – non importa chi lo dice – quello è il momento invece di chiedere

spiegazioni, di studiare e di compiere ricerche personali, perché siamo di fronte al chiaro, inequivocabile

segnale di un padrone in cerca di schiavi. E gli schiavi no, non sono liberi.

Viviamo nella migliore delle società possibili? Il progresso è sinonimo di miglioramento? Abbiamo più

libertà oggi di quante non ne avessimo in passato? Sono domande alle quali la sensibilità comune tende a

dare risposte scontate: oggi siamo finalmente liberi, le grandi democrazie occidentali garantiscono i nostri

diritti fondamentali, concorriamo alla vita pubblica attraverso libere elezioni e così via. Di contro,

guardiamo al passato con un misto di sollievo e timore: che fortuna non essere vissuti ai tempi dei faraoni,

o nell’antica Roma, o nel Medioevo! Certo, le condizioni della nostra esistenza sembrano migliorate,

almeno a giudicare dall’allungamento dell’aspettativa di vita. La medicina ha fatto passi da gigante, la

tecnologia anche di più. Ma siamo più felici oggi di quanto non lo fossimo qualche secolo addietro? Questa

è la domanda fondamentale: qual è l’obiettivo della nostra esistenza? Avere 23 gradi in casa tutto l’anno,

rinchiusi il più a lungo possibile in una prigione dorata, o vivere serenamente, in armonia con il creato e con

la nostra specie, il tempo che ci è stato regalato su questa Terra? A ben vedere, tutte le domande in

apertura di questo articolo possono essere messe in discussione. Siamo sicuri, ad esempio, di vivere in una

democrazia compiuta? Winston Churcill, nel 1947, disse che la democrazia è la peggior forma di governo,

ad eccezione di tutte la altre. Sta di fatto che alla base di una democrazia ci sono i diritti politici, i quali si

fondano a loro volta sulla libertà di scelta dei cittadini, che prende corpo nel diritto di voto, che poi a sua

volta deve sostanziarsi in una concreta attuazione dei programmi che hanno ottenuto una maggioranza.

Tutto il castello crollerebbe se la scelta che esprimiamo alle urne non fosse libera. E quand’è che si sceglie

liberamente? Quando si hanno tutte le informazioni utili a formulare un giudizio. Tutto nella nostra vita è

informazione, sin dai tempi in cui i primi uomini, per sopravvivere, dovevano sapere con precisione dove

sarebbero passati i branchi di bisonti, perché se avessero avuto informazioni sbagliate sarebbero morti di

inedia. Allo stesso modo l’uomo moderno occidentale deve conoscere quante più informazioni possibili sul

suo paese, sulle istituzioni che lo amministrano, sugli uomini che le presiedono, su quelli che si candidano a

sostituirli, sui problemi che affliggono l’economia, il lavoro, l’ambiente, le politiche sociali, la salute e su

come risolverli. Se queste informazioni fossero manipolate, per la convenienza dei pochi a discapito dei

molti, allora la scelta sarebbe falsata, teleguidata, sbagliata, illusoria, dannosa. Però, da Heisenberg in poi

sappiamo che non esiste informazione senza manipolazione: l’osservatore cambia ciò che sta guardando, e

dunque quello che racconta non è altro che la sua personale rappresentazione della realtà. Forse non esiste

una verità assoluta, dunque, ma tante verità che rappresentano le angolazioni parziali dalle quali si guarda

il mondo. Così come la luce bianca, tuttavia, è composta da tutte le frequenze luminose sommate le une

alle altre, la migliore approssimazione della verità allora non può che passare attraverso la pluralità delle

fonti di informazione. Non a caso l’articolo 21 della nostra Costituzione garantisce la libertà di pensiero e di

parola, cioè la libertà di espressione che si deve ad ogni singola opinione. E da dove passano tutte le nostre

informazioni, oggi? Sono “plurali”? Per lungo tempo ci siamo informati attraverso un medium piramidale,

verticistico, appannaggio di pochi, da subire passivamente: la televisione, veicolo elettivo della propaganda.

La televisione ha sostituito quello che per gli antichi greci era l’Olimpo, e gli opinionisti dei talk show hanno

preso il posto delle divinità. Dopo la costituzione dei grandi network televisivi, dalla metà del secolo scorso

in poi, non siamo stati mai liberi. Se allora ci ponessimo di nuovo la domanda iniziale, “abbiamo più libertà

oggi di quante non ne avessimo in passato?”, forse dovremmo convenire che rispetto ad altre epoche

storiche, dove la comunicazione tra le persone era diretta, oggi viviamo in una immensa caverna di Platone

controllata da chi ha idonei mezzi finanziari, e che questo ci rende tutti molto poco liberi di scegliere. Certo,

da qualche anno è arrivata internet, la più grande rivoluzione dell’informazione dopo Gutenberg, ma i

tentativi di infiltrarla e censurarla sono innumerevoli e molto insidiosi. Sta ad ognuno di noi rivendicare e

difendere la pluralità delle fonti e, soprattutto, avocare a sé il diritto incomprimibile di ragionare fuori dagli

schemi, secondo il nostro insindacabile giudizio. Ogni volta che ci viene detto che non siamo in grado di

capire, che dobbiamo fidarci di altri – non importa chi lo dice – quello è il momento invece di chiedere

spiegazioni, di studiare e di compiere ricerche personali, perché siamo di fronte al chiaro, inequivocabile

segnale di un padrone in cerca di schiavi. E gli schiavi no, non sono liberi.

Viviamo nella migliore delle società possibili? Il progresso è sinonimo di miglioramento? Abbiamo più

libertà oggi di quante non ne avessimo in passato? Sono domande alle quali la sensibilità comune tende a

dare risposte scontate: oggi siamo finalmente liberi, le grandi democrazie occidentali garantiscono i nostri

diritti fondamentali, concorriamo alla vita pubblica attraverso libere elezioni e così via. Di contro,

guardiamo al passato con un misto di sollievo e timore: che fortuna non essere vissuti ai tempi dei faraoni,

o nell’antica Roma, o nel Medioevo! Certo, le condizioni della nostra esistenza sembrano migliorate,

almeno a giudicare dall’allungamento dell’aspettativa di vita. La medicina ha fatto passi da gigante, la

tecnologia anche di più. Ma siamo più felici oggi di quanto non lo fossimo qualche secolo addietro? Questa

è la domanda fondamentale: qual è l’obiettivo della nostra esistenza? Avere 23 gradi in casa tutto l’anno,

rinchiusi il più a lungo possibile in una prigione dorata, o vivere serenamente, in armonia con il creato e con

la nostra specie, il tempo che ci è stato regalato su questa Terra? A ben vedere, tutte le domande in

apertura di questo articolo possono essere messe in discussione. Siamo sicuri, ad esempio, di vivere in una

democrazia compiuta? Winston Churcill, nel 1947, disse che la democrazia è la peggior forma di governo,

ad eccezione di tutte la altre. Sta di fatto che alla base di una democrazia ci sono i diritti politici, i quali si

fondano a loro volta sulla libertà di scelta dei cittadini, che prende corpo nel diritto di voto, che poi a sua

volta deve sostanziarsi in una concreta attuazione dei programmi che hanno ottenuto una maggioranza.

Tutto il castello crollerebbe se la scelta che esprimiamo alle urne non fosse libera. E quand’è che si sceglie

liberamente? Quando si hanno tutte le informazioni utili a formulare un giudizio. Tutto nella nostra vita è

informazione, sin dai tempi in cui i primi uomini, per sopravvivere, dovevano sapere con precisione dove

sarebbero passati i branchi di bisonti, perché se avessero avuto informazioni sbagliate sarebbero morti di

inedia. Allo stesso modo l’uomo moderno occidentale deve conoscere quante più informazioni possibili sul

suo paese, sulle istituzioni che lo amministrano, sugli uomini che le presiedono, su quelli che si candidano a

sostituirli, sui problemi che affliggono l’economia, il lavoro, l’ambiente, le politiche sociali, la salute e su

come risolverli. Se queste informazioni fossero manipolate, per la convenienza dei pochi a discapito dei

molti, allora la scelta sarebbe falsata, teleguidata, sbagliata, illusoria, dannosa. Però, da Heisenberg in poi

sappiamo che non esiste informazione senza manipolazione: l’osservatore cambia ciò che sta guardando, e

dunque quello che racconta non è altro che la sua personale rappresentazione della realtà. Forse non esiste

una verità assoluta, dunque, ma tante verità che rappresentano le angolazioni parziali dalle quali si guarda

il mondo. Così come la luce bianca, tuttavia, è composta da tutte le frequenze luminose sommate le une

alle altre, la migliore approssimazione della verità allora non può che passare attraverso la pluralità delle

fonti di informazione. Non a caso l’articolo 21 della nostra Costituzione garantisce la libertà di pensiero e di

parola, cioè la libertà di espressione che si deve ad ogni singola opinione. E da dove passano tutte le nostre

informazioni, oggi? Sono “plurali”? Per lungo tempo ci siamo informati attraverso un medium piramidale,

verticistico, appannaggio di pochi, da subire passivamente: la televisione, veicolo elettivo della propaganda.

La televisione ha sostituito quello che per gli antichi greci era l’Olimpo, e gli opinionisti dei talk show hanno

preso il posto delle divinità. Dopo la costituzione dei grandi network televisivi, dalla metà del secolo scorso

in poi, non siamo stati mai liberi. Se allora ci ponessimo di nuovo la domanda iniziale, “abbiamo più libertà

oggi di quante non ne avessimo in passato?”, forse dovremmo convenire che rispetto ad altre epoche

storiche, dove la comunicazione tra le persone era diretta, oggi viviamo in una immensa caverna di Platone

controllata da chi ha idonei mezzi finanziari, e che questo ci rende tutti molto poco liberi di scegliere. Certo,

da qualche anno è arrivata internet, la più grande rivoluzione dell’informazione dopo Gutenberg, ma i

tentativi di infiltrarla e censurarla sono innumerevoli e molto insidiosi. Sta ad ognuno di noi rivendicare e

difendere la pluralità delle fonti e, soprattutto, avocare a sé il diritto incomprimibile di ragionare fuori dagli

schemi, secondo il nostro insindacabile giudizio. Ogni volta che ci viene detto che non siamo in grado di

capire, che dobbiamo fidarci di altri – non importa chi lo dice – quello è il momento invece di chiedere

spiegazioni, di studiare e di compiere ricerche personali, perché siamo di fronte al chiaro, inequivocabile

segnale di un padrone in cerca di schiavi. E gli schiavi no, non sono liberi.

di Guido Grossi
Perché abbiamo laCostituzione più bella del mondo ma non l’abbiamo attuata? La vediamo come un’utopia:sogno irrealizzabile, rassegnati ad un (in)sano realismo. Eppure, le utopie diventanorealtà.
Ci viviamo già dentro adun’utopia e non ce ne rendiamo conto, né l’abbiamo vista arrivare. Si chiama“neoliberismo”: è il sogno sognato dai ricchi aristocratici di tutto il mondo didiventare sempre più ricchi e potenti, senza incontrare resistenze. Non usanola forza ma il sistema in-formativo per confonderci le idee e farcelo accettarepassivamente. In questo sogno divenuto realtà i poveri si sentono colpevoli dinon essere capaci di diventare ricchi. La borghesia scivola lentamente verso ilbasso senza capire il perché né da che parte stare e diventa compliceinconsapevole dello sfruttamento dei poveri e della propria condanna all’emarginazione.Non l’abbiamo visto arrivare: si è nascosto dietro parole accattivanti come meritocrazia, competizione, governabilità. Dietrouna complicazione tecnica, figlia di quelle parole, inutile e oscura, servita asdoganare regole meccaniche incomprensibili (il “pilota automatico”) che cihanno spinto in direzione opposta a quella che avevamo creduto e desiderato.
Le parole sono potenti incantesimi:plasmano la realtà. Creano le idee e spingono verso scelte determinate. Leavanguardie dei ricchi lo sanno, usano le parole con grande attenzione. Studiano,sanno cosa dire, e lo ripetono all’infinito! Investono decenni e miliardi perinfilare nell’immaginario collettivo un uso distorto di poche parole chiave. Noi,popolo ingenuo che ha imparato a leggere, scrivere e far di conto, abbiamo unalaurea e viviamo su internet, ci scivoliamo sulle parole senza scendere inprofondità, sommersi da una valanga di informazioni inutili: leggi che non possiamoleggere; proposte lontane dai nostri bisogni; notizie oscure di economia efinanza riservate agli addetti, commentate da giornalisti ignoranti, a voltepiù di noi. Nella scuola dell’obbligo non siamo stati educati a prevedere glieffetti che le parole producono. Nei licei che preparano le classi dirigenti nonsi insegna la Legge, l’Economia, la Finanza, la Psicologia, la Sociologia, laProgrammazione Neuro Linguistica. Nelle Università ne puoi studiare una sola diqueste “materie” ma sei condannato ad ignorare tutte le altre. Per governarecomunità complesse, invece, tocca usarle tutte quelle conoscenze. Una nonbasta. Con quali criteri andiamo a votare se non siamo in grado di capire se ecome le diverse proposte elettorali modificano le nostre vite? Basterebberopoche informazioni elementari, ma ci vengono accuratamente negate.
Prendiamo la “meritocrazia”e per capirla meglio, spezziamola in due. Merito, dal latino meréri, vuol dire acquistare. Il suffisso “crazia” dal greco Kratosci parla del potere didominio, cioè del diritto diesercitare violenza!“ Applicare criteri meritocratici” vuol direbrutalmente: “accettare che qualcuno acquisisca il diritto di esercitareviolenza sugli altri”. Non è questo che volevamo! Noi, ingenui, avevamo credutoche qualcuno stesse “mettendo le personegiuste al posto giusto”! Scoprirlo ci fa stare male, ci sentiamo traditi.
In nome della“governabilità” abbiamo accettato leggi elettorali maggioritarie che mentre cihanno tolto il diritto di scegliere le persone che ci rappresentano, hannopermesso a minoranze organizzate di trasferire altrove le leve di governodell’economia, compromettendo di fatto gravemente il potere delle istituzionistatali di governarci.
Osserviamo la“competizione” e la “concorrenza”.  Se avessimo riconosciutoil significato profondo di queste parole non ci saremmo lasciati trascinare inquesto luogo della follia collettiva dove è necessario sgomitare per emergere esopravvivere, condannati a diventare più produttivi ed a “lasciare indietro iperdenti che ci rendono “meno competitivi”.Ci siamo messi a correre per non rimanere indietro in maniera insensata. Prestiamoattenzione al significato corretto: cumpétereecon correre ci dicono esattamente ilcontrario. Per “cercare di raggiungere la meta” (questo è il significato del latino:pétere), dobbiamo “farlo insieme” (cum). Per andare più veloci (correre)dobbiamo essere tanti e uniti (con). Allora è giusto competerema solo se usiamo il senso pieno e vero della parola:tendere tutti insieme verso una meta comune. Risuona con le nostre profondeaspirazioni e ci fa stare bene. È quello che credevamo di fare, quando ciparlavano di Europa unita. Ma se ci lasciamo trascinare nell’uso distorto delleparole e delle idee che rappresentano, finiamo invece per sgomitare perarrivare primi per meritarci il diritto di esercitare violenza sugli altri o,peggio, di accettare rassegnati che altri lo facciano. Sta succedendo!
Vogliamo allora dirci cheè più bello il nostro, di sogno? Quel modello di società disegnato nellaCostituzione fatto di sovranità popolare, di solidarietà, laboriosità, rispettoed accoglienza per tutti, nessuno escluso. Equilibrio mirabile di doveri ediritti, di responsabilità, di formazione, di comunità, di Res Publica: casa comune. L’avevamo scolpito nella legge delleleggi, l’avevamo appena iniziato a realizzare… ma ci siamo distratti.
Questo lo dobbiamo capire:non basta scrivere una buona legge. Non è bastato scriverla col sangue di dueguerre. Bisogna piuttosto imparare a conoscerla vivendola, studiando eimpegnandoci in prima persona a darle forma e vita. Se vogliamo realizzare lanostra utopia, noi che siamo ancora popolo sovrano ma abbiamo smesso disentirci tali, dobbiamo ritrovare noi stessi. Ricordare che la democrazia nonsi esaurisce in un voto (che tanto ci fregano con le leggi elettorali!). Lademocrazia ha senso se molti partecipano, studiano, si impegnano, insomma: seil popolo sovrano decide, diffusamente, di assumersi le proprie responsabilità.Se ci sono riusciti i ricchi aristocratici, a realizzare la loro utopia, e lohanno fatto usandole parole, possiamo farlo tutti noi. Le nostre parole e lenostre intenzioni, oltretutto, sono più belle, più vibranti di amore:facciamole vivere!
Si comincia trovando ilcoraggio di staccarci dal flusso caotico di informazioni devianti e rumorose. Scegliendoresponsabilmente di fare silenzio, spegnendo la televisione e le radio eaccartocciando i giornali finché controllati dai ricchi aristocratici. Quelli cirimbambiscono di pubblicità di prodotti e, soprattutto, di idee, pensate per ilbeneficio di pochi. Per accenderne un altro, di canale per l’in-formazione.Tutto nostro.
Tutti quelli che ci in-formanovogliono anche formarci. Se ci immergiamo nella parola In-formare, infatti, scopriamoche di questo si tratta: (in) di metteredentro al destinatario una forma,quella contenuta nel significato delle parole.
Anche io in questoarticolo provo ad instillare nelle vostre coscienze una forma particolare: ungrande desiderio di silenziare i canali di in-formazione che usano i ricchi perrimbambirci e portarci dove non vogliamo andare. Un silenzio interiore nelquale imparare ad ascoltarci e riconoscerci, che ci dia la forza di competere ma nel senso vero e profondodella parola, questa volta. Per tendere, tutti insieme, alla realizzazione diuna buona, libera, plurale, onesta in-formazione. Che ci restituisca quelle conoscenzeelementari necessarie a riprendere il cammino verso il sogno collettivo cheabbiamo lasciato in sospeso. L’attuazione della nostra Costituzione. Utopia cheabbiamo il dovere, ma anche il potere, ed il piacere, di realizzare insieme.
 
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