De profundis per l’accordo del secolo

ll ritorno di Israele alle urne il 17 settembre ha segnato il destino del piano Usa per il Medio oriente. Washington porterà avanti solo la parte economica con il summit in Bahrain di fine giugno. Ma i palestinesi ne chiedono il boicottaggio.

Congelato per almeno altri cinque mesi, quando stava per essere svelato, dopo la convocazione inaspettata di nuove elezioni israeliane, l’Accordo del secolo, il piano con cui l’Amministrazione Usa pensa di ridisegnare il Medio oriente a favore di Israele ed Arabia saudita e di annullare la questione palestinese, procederà per ciò che riguarda le sue parti economiche. Lo assicura l’avvocato Mark Zell, presidente del Partito Repubblicano Usa in Israele, in una intervista ad Arutz 7 l’agenzia di informazione dell’estrema destra israeliana. Quindi resta confermato per il 25 e 26 giugno il summit economico per «finanziare» l’Accordo del secolo, organizzato dagli americani a Manama, con la partecipazione delle monarchie del Golfo. I palestinesi non ci saranno dopo le mosse di Trump a favore di Israele: lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, il taglio degli aiuti all’agenzia dei profughi Unrwa e delle donazioni ai Territori occupati e la chiusura dell’ufficio di rappresentanza dell’Olp a Washington.

Certo è che alla Casa Bianca sono seccati, e parecchio, per i clamorosi sviluppi della politica israeliana. Trump non ha avuto peli sulla lingua commentando con disappunto (a dir poco) il ritorno di Israele alle urne il 17 settembre quando appena due mesi fa Benyamin Netanyahu e il resto della destra israeliana avevano ottenuto una chiara vittoria elettorale. Ed è stato costretto ad ammettere che il segretario di Stato Mike Pompeo tutto sommato «potrebbe avere ragione» quando afferma che l’Accordo del secolo è «ineseguibile» oltre ad essere a netto favore di Israele.

Così, scrive l’analista Marwan Asmar, la conferenza in Bahrain è un tentativo, vano, di evitare una figuraccia totale per Washington e l’ideatore del «piano di pace», Jared Kushner, il genero di Trump. «L’incontro a Manama è come mettere il carro davanti ai buoi» spiega Asmar «occorre inoltre considerare che quanto sarà offerto (ai palestinesi), tra 50 e 70 miliardi di dollari, alla fine non si materializzerà, lo dimostrano le esperienze del passato in occasione delle conferenze di donatori». Secondo l’analista né Netanyahu né chiunque altro formerà il prossimo governo israeliano o l’amministrazione Trump possono divincolarsi dalle questione politiche fondamentali. In ogni caso, aggiunge, i palestinesi non rinunceranno ai loro diritti. Trump, prevede Asmar, «alla fine rinuncerà a presentare la parte politica del piano perché dovrà affrontare la campagna per le presidenziali Usa del 2020». A Netanyahu sta bene. Le nuove elezioni favoriscono i suoi piani. Nonostante l’iniziativa Usa sia favore di Israele, non piace al premier e alla destra nazionalista religiosa. Netanyahu punta – come ha annunciato lo scorso aprile alla fine della campagna elettorale – all’annessione di quasi tutta la Cisgiordania sotto occupazione militare per mettere fine all’idea di uno Stato palestinese. Ed è convinto che Trump, o un altro presidente Usa, la riconosceranno.

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