La Waterloo del lavoro autonomo

I nuovi poveri sono le partite IVA e il tempo scorre veloce

di Claudio Vitagliano

A differenza di ciò che pensano in tanti, il piano inclinato su cui sempre più velocemente scivola il lavoro autonomo verso la rovina non è un evento nuovo e solo dovuto alla crisi sanitaria, ma ha origine nell’altro secolo, e per l’esattezza nell’anno 1998.

Con l’abolizione delle licenze commerciali e relative tabelle merceologiche, si è dato la possibilità a chiunque ne avesse voglia o necessità di aprire un’attività commerciale, senza essere obbligato a tener conto delle esigenze del territorio in relazione al genere di prodotti o servizi che ci si apprestava a fornire.

La conseguenza di ciò è stata la saturazione del mercato riguardo a certi servizi, mentre per altri beni e servizi alcune zone restavano sguarnite. La deregulation è stata letale per interi settori del commercio e del lavoro autonomo in genere.

In seguito, a partire dal 2008, l’anno della crisi planetaria dovuta alla bolla finanziaria, la perdita dei posti di lavoro nell’industria privata ha fatto sì che ci fosse una migrazione dal lavoro dipendente al lavoro autonomo, creando però scompensi macroscopici, dovuti proprio alla mancanza di regole voluta dalla legge Bersani.

L’effetto più evidente è stato appunto lo squilibrio tra domanda e offerta in tutti i settori del commercio, che hanno aggravato proprio quelle anomalie nelle regole del mercato che le politiche neoliberiste avevano già reso poco stabile e di fatto ingovernabile.

Nella pratica quotidiana ci siamo trovati con un esercito di persone che si sono improvvisate baristi, artigiani, fioristi, ecc. senza esperienza nel settore in cui sono andati ad operare, sia dal punto di vista tecnico che dal punto di vista della gestione economica.

Proprio a causa di questi fattori che si sono sommati abbiamo avuto dapprima una crescita rapida nel settore, seguita da un’altrettanta rapida mutazione del quadro generale.

E veniamo ai nostri giorni.

Andiamo a vedere dove ci ha condotto tutto ciò, dati alla mano.

Dal 2016 le partite IVA o donatori d’imposta, come vengono anche chiamate, in Italia sono scese da un numero di 8,6 milioni a 5,3 milioni, secondo dati aggiornati all’inizio dell’anno.

Il 71% di questi sono persone fisiche.

Contestualmente negli ultimi 10 anni, il reddito medio di una partita IVA si è ridotto di 7000 euro.

Questo dato è incontrovertibile ed evidente, tranne che agli occhi del fisco e a quelli del suo mandante: il governo, anzi di tutti gli ultimi governi.

Il 25% delle partite IVA vive al di sotto della soglia di povertà, secondo i dati ISTAT, e ogni anno arrivano nuove cartelle con sanzioni basate su dichiarazione dei redditi di anni prima, con intimazione a pagare entro pochissimi giorni.

Continuiamo: le uniche tipologie di imprese in crescita dal 2012 sono le società di capitale.

Ciò indica chiaramente che dalle piccole imprese in giù, la praticabilità del mercato è decisamente scarsa.

Il 95 % delle partite IVA ha rateizzazioni per mancati pagamenti che si accumulano alle scadenze fiscali in corso.

Proprio in relazione alle scadenze sopra citate, rileviamo contemporaneamente insieme ad una pressione fiscale insostenibile a danno delle piccole imprese una parallela tassazione agevolata per le aziende transnazionali. Ciò fa sì che i capitali accumulati da queste ultime, proprio grazie ad aliquote ridicole a loro applicate, permettano una concorrenza sleale nei confronti delle piccole imprese, al di fuori di ogni etica.

Ma torniamo ai dati.

Come se non bastassero le anomalie sopra elencate, gli autonomi non hanno malattia, non hanno ferie o altri tipi di tutele sociali e quindi è lecito chiedersi: dove finiscono i soldi delle tasse da loro versati? Perché, dopo decenni di versamenti, oggi il governo non usa quei fondi per creare degli ammortizzatori sociali per i lavoratori autonomi in difficoltà?

A rendere la situazione ancor più insostenibile concorrono i controlli fiscali: le partite IVA ne subiscono una quantità infinita da più enti, i quali controlli finiscono nel 25% dei casi con un verbale che intima di pagare, prima ancora di poterlo contestare.

Il 90 % degli imprenditori è oppresso da fidi bancari con alti interessi, per ottenere i quali, devono dare in garanzia tutto ciò che possiedono, rischiando poi di perderlo.

Parlando delle varie spese per mandare avanti le attività ci sono una miriadi di voci: la parcella del commercialista, il carburante, gli affitti, le esose tariffe autostradali e tanto altro che, anche se sono spese deducibili, lasciano spesso il lavoratore autonomo con le tasche vuote.

Le partite IVA contribuiscono al bilancio dello stato come le altre categorie dei lavoratori, ma a differenza loro, sono additate come evasori fiscali e spesso, addirittura, criminalizzate.

I lavoratori in partita IVA incassano la mancata solidarietà di gran parte dei lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, della quale, specialmente in questo periodo di covid, avrebbero bisogno.

Tra le infinite difficoltà in cui si dibattono i lavoratori autonomi c’è, secondo uno studio dei consulenti del lavoro diffuso il 13 novembre 2019, un insostenibile carico burocratico e di adempimenti che poco hanno a che fare con la natura dell’attività stessa e che rendono lo svolgimento del lavoro in questione ancora più problematico.

Da un rapporto Caritas in piena crisi da coronavirus del 18/10/2020 si constata che i nuovi poveri sono le partite IVA. Tra le 62’000 persone aiutate dai volontari Caritas ci sono 2’000 piccoli commercianti e lavoratori autonomi. Gestori di locali, addetti al turismo, professionisti ecc… compongono una buona quota dei diseredati creati dall’emergenza sanitaria.

Mettendo a confronto i dati del periodo Maggio-Settembre 2019 con lo stesso periodo del 2020, il numero dei nuovi poveri passa dal 31% al 45%.

Una persona su due che si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta. Aumenta il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani e dei nuclei Italiani che sono oramai maggioranza (52% rispetto al 47 % dello scorso anno).

Sono sempre di più le persone con fissa dimora che chiedono aiuto, dall’80,6% al 85,9% e famiglie con figli dal 73,5% al 75,4%.

Vi è una e stabilizzazione della povertà come avvenne nel 2008, con la differenza che nel 2019 il numero dei poveri era già doppio rispetto al 2007.

Un dato che ci deve far riflettere è che tale situazione possa alla fine risultare nella percezione collettiva come fisiologica e quindi del tutto normale.

In definittiva possiamo concludere che la categoria dei lavoratori autonomi che produce da sempre una buona quota delle risorse che servono a mandare avanti il paese, non è più in grado di farlo.

E non per una mancanza di capacità del comparto, ma per le politiche economiche dissennate a cui l’intera categoria delle partite IVA è sottoposta.

Se solo fosse possibile investire nel settore del commercio e del lavoro autonomo, le risorse che vengono sottratte all’erario dalla mancata tassazione delle multinazionali, raggiungeremmo probabilmente molti obiettivi, tra i quali più giustizia sociale e più ricchezza per tutti.

I dati sono della Federcontribuenti, della Camera di Commercio e dell’ISTAT

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