Studenti e Grande Reset: informazione critica o dignitoso silenzio?

Un dilemma morale di Max Weber per docenti pensanti

di Paolo Genta

Chi insegna, o ancora ne ha la pretesa, in questo contesto disastroso di emergenza sanitaria, utilizzata per una demolizione controllata dell’economia mondiale e dai destini potenzialmente terrificanti, dovrebbe fare alla propria coscienza (se ne ha ancora una) delle serissime domande sul senso di quello che sta facendo in classe con i suoi studenti. E non mi riferisco affatto a problemi didattici, alla programmazione, a tutto ciò che, per diverse ragioni, è diventato un arido e meccanico strumento di gestione dell’ignoranza (almeno per chi vi si è da tempo arreso). Mi riferisco, invece, a ciò che più disperatamente continua a mancare ai nostri studenti: un maestro, un punto di riferimento di metodo e ragionamento, nell’oceano di una ipocrita falsità e minorità intellettuale, che sta devastando le nostre coscienze, e che stronca e umilia qualsiasi tentativo di comprensione che voglia tenersi al di fuori delle manipolazioni del pensiero unico. Quella di avere nel proprio docente un “maestro” non è la solita retorica ministeriale o da bestseller sulla scuola: è, oggi, la più evidente e pressante necessità, che inderogabilmente si impone a tutti i docenti seri, in questi tempi di decisioni ardue e irrevocabili. Decisioni che si stanno avvicinando pericolosamente a quelle che dal 1934 gli ebrei d’Europa dovettero affrontare per salvare la pelle, in un mondo che allora, come oggi, discriminava vite e destini. E non è catastrofismo: basta osservare il cronoprogramma dei mondialisti per rabbrividire sui prossimi destini del mondo, nal caso che essi si impongano definitivamente. Allora l’Europa era alle prese con la questione razziale; oggi il mondo è alle prese con quella sanitaria. Gli adolescenti, in classe, sono sperduti, disorientati, soffocati dalle mascherine, intorpiditi da una socialità, di fatto, dimezzata (mezza classe a casa, mezza in aula), confusi dai loro stessi docenti, spesso già impreparati alla relazione, alla comprensione di fondamentali principi della psicologia clinica e sociale. Questi, infatti, si presentano alla classe in massima parte con comportamenti omologati al peggio: sono spesso ipocondriaci, minacciano pronte punizioni in caso di devianza dal protocollo, controllano in prima persona gli adempimenti “sanitari” (“su la mascherina, per favore, non te lo ripeto”), richiedono testimonianze “delatorie” verso colleghi meno zelanti (…”ragazzi, mi dite se il docente X tiene la mascherina in classe?”), accettano convintamente qualsiasi logica irrazionale, purchè li tenga al riparo nel gregge; considerano i colleghi critici come dei “militanti” e giudicano le loro opposizioni argomentate e comprovate da logica rigorosa come semplicemente “dogmatiche”. Ma non offrono alcuna forma di accoglienza ai propri studenti, non fanno alcun tentativo, verso di loro, di dare senso (critico) alle nuove terribili modalità di convivenza o, se sembrano farlo, rimangono piuttosto in un democristiano ed edulcorato cerchiobottismo inconcludente dei se e dei ma, senza avere il coraggio di cercare onestamente almeno una argomentazione, un dato, non interpretabili, non opinabili; alcuni altri, poi, (che riconoscerei come colleghi con qualche difficoltà) non compromettono il “programma” nemmeno per un’ora, per interrompere una routine, di questi tempi ormai palesemente ipocrita e finta, con qualche minimo momento di riflessione con i propri studenti, per sapere come stanno, per cercare di capire insieme, per stringersi insieme a dare speranza, ma anche a trovare risposte logiche alternative alla patente irrazionalità di regime. Dicono che bisogna, appunto, infondere speranza, non pessimismo: ma la speranza non è alternativa alla ricerca di una informazione libera e comprovata, bensì si fonda proprio su di essa. Una speranza senza informazione è come una testa nella sabbia. Per loro, invece, la speranza verso gli studenti consiste nell’evitare certi argomenti, nel ridurre tutto all’ordinario, o tutt’al più ad un probabile incerto, ad una fusione di relativismi che rendono ogni argomentazione priva di forza logica e conclusiva. Questi docenti (fortunatamente non tutti) sono come un quartetto di archi sul ponte del Titanic: verranno travolti dalla realtà, come quegli ebrei del ghetto di Varsavia che riponevano fiducia nei loro rappresentanti a colloquio con gli ufficiali delle SS, fiduciosi che la vita nel ghetto, almeno, non sarebbe cambiata in peggio. E veniamo al punto allora: fa parte o no, del dovere etico di un insegnante non ignorare, in classe, i contesti terribili di una guerra (perché di questo si tratta) che si combatte spietatamente e con ritmi sempre più incalzanti (continue inibizioni economiche, campagne vaccinali basate sul ricatto sociale, limitazione dei diritti umani, sovvertimento della gerarchia delle fonti giuridiche, accelerato arbitrio legislativo, sorveglianza digitale compulsiva) e che entra come un calcio in faccia perfino in classe, nella forma di inibizioni inaccettabili per menti libere? Entrando in classe, un minimo senso della propria dignità e del dovere imporrà di rivolgersi alle coscienze dei propri studenti, perché i tempi lo richiedono, per la loro gravità e per quanto incombe su tutta la comunità mondiale in caso di “sconfitta” dell’umano e di trionfo del transumano. Non è possibile fare altrimenti. Sarebbe come fare lezione a Londra sotto i bombardamenti del 1940, ignorando stupidamente i morti e la distruzione dei quartieri vicini. Quando la sopravvivenza stessa della società si fa tanto evidente da non poter più essere ignorata, chi siede ad una cattedra ha il dovere di presentare almeno ai suoi studenti alternative di pensiero, fondate, dotate di argomentazione logica, addirittura di prove o, almeno, di lunghe catene indiziarie. Ma come si fa in pratica? Converrà, per astenersi da inutili conflitti interni, operare con discrezione, sia verso le classi sia verso i colleghi (che potrebbero diventare pericolosi delatori o fastidiosi impiccioni nella altrui libertà di insegnamento). Non tutte le classi sono pronte per le versioni alternative, né lo sono immediatamente. Su cento studenti di triennio, i soggetti disponibili alla fatica della ricerca e della passione per autenticità e verità possono contarsi sulle dita di una mano: i “non-respondent”, sono la maggioranza e, comunque, sono i maturandi quelli più potenzialmente ricettivi, per ovvie ragioni (sempre che si sia lavorato molto con loro). Tuttavia sappiamo che il maestro è un seminatore che non si guarda mai indietro e che solo dopo molti anni, semmai, può vedere i risultati del suo operato. Il desiderio degli studenti di capire, però, rinasce quando si abbandona per un attimo la routine (interrogazioni, verifiche, parti più convenzionali o tecniche del programma) e si approfitta delle domande tipiche della disciplina insegnata (anche la Chimica o la Matematica!) per porre questioni “universali” e legate (oggi, sempre più necessariamente) a ciò che succede fuori dall’aula. Per contro, ignorare come molti colleghi sembrano fare, le questioni portanti del vivere insieme, della nostra comune dimensione autenticamente animica, non solo operativa, serve solo a rendere questi ragazzi ancora più passivi, diffidenti, disperati e dissociati. E gli equivoci, attenzione, sono sempre in agguato. Un esempio: intentare in classe un ragionamento sulla domanda, più che legittima, posta dagli studenti, riguardante l’avvenuto (o meno) isolamento del virus SARS-COV2, e farlo sulla base di dichiarazioni di medici e ricercatori internazionali di chiara fama, riferendosi ad alcuni concetti anche facilmente intuibili dal senso comune, nel loro significato generale, può di fatto venire frainteso come una dichiarazione di non esistenza del virus (con tutte le conseguenze del caso, da parte di zelanti difensori di una versione ufficiale che, però, non risponde alle legittime domande tecniche e logiche sul tema). Meglio essere socratici e fare più domande che affermazioni per non incorrere, appunto, nell’accusa di “dogmatismo” da parte di chi, comunque, non saprebbe, queste domande, ne affrontarle ne porsele. Max Weber, in un grande classico come “Wissenschaft als Beruf” (La Scienza come professione, il suo testamento spirituale del 1919 sulle regole della professione intellettuale), ci avverte del significato di considerazioni non-disciplinari del “professore” dinanzi ai suoi studenti (lui si riferiva alla docenza universitaria tedesca). “La politica – ci dice – non si addice all’aula di insegnamento e neppure da parte degli insegnanti (…), giacchè l’atteggiamento politico nella pratica e l’analisi politica di formazioni e partiti politici son due cose diverse”. La funzione “avalutativa” della Scienza, per Weber, richiede che il docente, nel suo parlare agli studenti su questioni di scelta “politica” (ma cosa non è politico oggi?) possa mostrare “…la necessità di questa scelta, ma non può far di più, in quanto voglia rimaner insegnante e non divenir demagogo. Naturalmente può ancora dirvi: se volete questo o quell’altro fine dovete mettere in conto anche questa o quell’altra conseguenza, che si verifica conforme all’esperienza…”. Insomma, la cattedra non è certo posto per docenti che non sappiano distinguere tra rigore scientifico e opinione personale, questo è chiaro. E di docenti “demagoghi”, secondo me, ne abbiamo più d’uno, tra noi. Ma ci sono anche quelli che un problema di coscienza, con i loro studenti se lo sono posto. Infatti, più oltre Weber precisa il valore morale di un impegno rigoroso del docente, che consiste non nel cercare di convincere studenti senza diritto di parola al suo cospetto (altri tempi, quelli della Repubblica di Weimar, in quanto a severità e autorità dei docenti), bensì nel saper presentare loro le cose “imbarazzanti”, che li spingono al ragionamento autonomo e, di conseguenza, alla loro libertà di pensiero, anche e soprattutto nei confronti del maestro. Infatti, ci avverte Weber: “un abile maestro considererà suo primo compito insegnare ai propri allievi a rendersi conto di fatti imbarazzanti, e cioè tali, intendo dire, che siano imbarazzanti per la sua “opinione di partito” (…) credo che il professore (…), se avvezzi i propri ascoltatori a questa necessità, compia un’opera non soltanto intellettuale ma – oserei dire – un’ “opera morale”… ”. E piu oltre: “…il professore che si senta chiamato a dare il suo consiglio ai giovani e goda della loro fiducia, dovrà procurare di mettersi alla prova discutendo con loro in un rapporto personale da uomo a uomo (…). Possiamo quindi, se abbiamo capito il nostro compito (…), costringere il singolo – o almeno aiutarlo – a rendersi conto del significato ultimo del suo proprio operare (…). Di un insegnante che riesca in questo compito, sarei tentato di dire che si è messo al servizio di potenze “etiche”, per promuovere il dovere, la chiarezza e il senso di responsabilità e credo che ne sarà tanto più capace quanto più coscienziosamente eviterà di fornire bell’e pronta o di suggerire per proprio conto ai suoi ascoltatori la posizione da prendere (Max Weber, La Scienza come professione in Il lavoro intellettuale come professione, 1919. Einaudi 1948, pag. 28-37). E’ seguendo questi ragionamenti, che sono anche la voce della nostra coscienza di insegnanti, che non ci si può esimere dal trattare i nostri studenti come un fine e non come un mezzo (per un misero stipendio). E per questo si deve essere disposti anche a venire maltrattati da una maggioranza belante di soggetti che hanno svenduto la propria coscienza al primo che li ha messi in un recinto, al riparo dallo sguardo su sé stessi.

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1 Commento

  1. Drammaticamente d’accordo. La difficoltà sta nel trovare l’equilibrio argomentativo tra tragica realtà e possibilità di lotta, di opposizione, quindi speranza. Ma è certo che il silenzio non è consentito.

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