Abbattere o vaccinare gli alberi

è un problema (?)

di Anna Bruno

Ѐ da tempo che i pini di Roma soffrono. E tuttavia, solo nelle ultime settimane, si son visti i riflettori addosso. E si sa, quando la luce mediatica si infrange su un problema, polarizza l’attenzione dell’opinione pubblica, che finalmente, almeno in parte, alza gli occhi su quelle meravigliose pennellesse al cielo, per guardarle addolorata… (?) Sensibilizzata, allora, accorre, compiaciuta con i media, additando la Toumeyella parvicornis, l’insetto parassita dei pini, proveniente dal Nord America, che senza prenderci troppo in considerazione, si è impadronito dei nostri Pinus pinea!

E cerca pure il rimedio più celere, questa parte di opinione pubblica, se non vuole che il Comune passi con la sua moderna scure: la motosega, l’invenzione tecnologica no-perditempo più ardita, che supera la lenta e faticosa ars topiaria, fendendo con deciso piglio la parte bassa dei loro tronchi. E…boom! Tutti giù per terra! E ad occhi chiusi, il problema è risolto. Poi il sipario si chiude, i riflettori si spengono e dei decennali Pinus pinea romani solo il ricordo!

Quanto tempo è passato da quando l’albero in sé era tutt’altra cosa!

(…) Nel suo secondo capitolo, la Genesi racconta che, dopo aver piantato la propria tenuta, Dio creò Adamo dalla terra ed Eva dal fianco di Adamo e in questo giardino li liberò entrambi. Ma entrambi avrebbero dovuto prendersene cura, coltivarlo e custodirlo, se avessero voluto apprendere la vita. Solo se si fossero impegnati con costanza e perseveranza, le piante avrebbero svelato loro l’armonia come essenza stessa di tutto il Creato. E soprattutto l’albero, con la sua forza evocante la persona (…) scrive la sottoscritta in Anima Persa Anima ritrovata, periegesi all’interno dei giardini vaticani  (di Anna Bruno, pg 23 – Roma, 2017 – Palombi editori) https://www.periegeta.it/it/pubblicazioni/.

L’albero come modello educante, di più, l’albero come educatore maieuta, colui che stimola al dubbio e al suo superamento, con domande rivolte a chi, in ascolto attivo, le coglie, e che, paziente, aspetta le possibili e più veritiere soluzioni. E lo fa nella sua doppia essenza costitutiva: da una parte con la naturale propensione all’accoglienza del suo femminile, del suo tronco, della sua chioma e dei suoi frutti, e dall’altra con la verticalità egoica del suo maschile, del suo stesso tronco e dei suoi rami intenti ad incontrare il Cielo, e delle sue radici esploranti il ventre sacro della Grande Madre, la Terra. E ad ogni ceppo di rami corrisponde il suo ceppo di radici: va da sé che potare un ramo significa recidere la sua radice corrispondente, e se il potatore è disattento e non guarda con sapienza dove taglia, l’albero entra in sofferenza, preda facile all’attacco di virus infestanti, insetti nocivi, a cui resisterà con dignità fino alla caduta.

Una conoscenza quest’ultima che la donna e l’uomo del neolitico apprendevano naturalmente, già in tenerissima età, grazie ad una convivenza partecipata che conduceva occhi e orecchie ad un profondo ascolto. Impossibile era dunque, per loro, sfuggire all’albero, tanto meno passargli accanto frettolosamente, vedendolo senza guardarlo. E… di alberi erano popolate le loro sapienti fiabe, giunte fino a noi intatte, nella loro morfologia e finalità. Perché la donna e l’uomo del neolitico studiavano i loro compagni alberi, in quanto attori protagonisti del loro viaggio iniziatico di scoperta e arricchimento personale, nel corpo e nell’anima.

Gli alberi erano cosa sacra. Non oggetto abbellente, ma soggetto venerato, axis mundi, attorno al quale la comunità si riuniva e danzava per chiedere aiuto e discesa di saggezza nei pensieri e nelle parole degli uomini e delle donne, perché una loro sana comunicazione conducesse alla giusta soluzione del problema. Per questo attorno all’albero, per prima cosa si danzava e la danza era preghiera, inno alla vita. Solo al termine di questa recitazione corporea, ci si sedeva sotto l’ala protettiva delle sue fronde, rigorosamente in cerchio, affinché gli sguardi non imparassero a sfuggire, ma a confrontarsi. Solo così, nella nuda verità di chi sa porsi l’uno di fronte all’altro, si poteva discorrere di ciò che era male e che era di conseguenza da scolpire via e ridurre in ceneri, queste ultime, fertilizzante indiscusso del bene. E il bene era il bello e il bello era buono: un concetto ripreso più tardi dai grandi artisti del pensiero e della tecnica, del mondo egizio, ebraico, greco, latino e nostrano rinascimentale.

Gli uomini nel tempo coltivarono giardini ad alberi e il giardino, scrive ancora la sottoscritta nel succitato testo: (…) si fa, di volta in volta, specchio dell’anima di chi lo attraversa, lo pensa, lo vive, lo crea e lo partecipa o di chi lo usa con indifferenza e negligenza, o ancora chi ne fa un suo oggetto industriale. Di natura versatile, il giardino, infatti, si lascia modellare o trascurare, ma nel secondo caso non c’è via di scampo: il giardino trova la sua sofferenza che, pur mostrandosi, non viene percepita né letta con esattezza, finendo col non riuscire a ricevere il suo più giusto rimedio. Perché il giardino non mente, non mente mai. Esso si svela incondizionatamente ma solo a chi è disposto ad entrarvi con l’occhio dell’empatia e a sentirsi parte di esso (…) (idem, pg 31).  Un’empatia persa oggi, perché l’anima dell’uomo è persa, confusa, anestetizzata, spogliata della sua dignità più profondamente umana. E a farne le spese è la Grande Madre con i suoi sacri figli, un boomerang per l’uomo che negli ulivi oggi non vede più la LUCE della SAPIENZA, per via dell’elettricità, e nelle palme la CONOSCENZA della VOLUTTA’ e della PACE insieme, e ancora nel pino la SPERANZA dell’INCORRUTTIBILITA’ e dell’IMMORTALITA’, né, in questi alberi, egli avverte l’energia dell’incontro armonico tra il femminile e il maschile, dello ying e dello yang, sprigionarsi cercando disperatamente di raggiungere il suo sé.

Eppure, scrive ancora la sottoscritta, nello stesso testo, a proposito del genere Pinus(…)Come la quercia, le diverse specie di pini con i loro aghi sempreverdi e con il profumo balsamico che elargiscono ovunque, evocano l’idea dell’incorruttibilità e dell’ immortalità e dunque della divinità. Presso i Greci, questi alberi erano associati a Rea, la Grande Madre degli dèi dell’Olimpo a cui, più tardi, si sostituì il mito della ninfa Pitis che, ansiosa di sfuggire al dio Pan, invaghito di lei, chiese e ottenne di essere trasformata nell’albero che poi prese il suo nome. Il pino era anche sacro a Dionisio, raffigurato spesso con una pigna in mano che, come l’edera, simboleggiava il perdurare della vita vegetativa e il suo eterno ritorno. Si credeva che il dio divorato dai Titani, risorgesse a nuova vita.

 Nell’antica Roma, il culto di Cibele, echeggiante il drammatico culto dionisiaco, prevedeva l’idolatria del pino che, una volta abbattuto, veniva portato al tempio sul Palatino. Avvolto in bende di lana e inghirlandato di violette, il pino impersonava il defunto Attis, amante divinizzato della dea, su cui vegliavano i fedeli, gemendo tutta la notte, in attesa della sua resurrezione. Con il rinnovarsi della natura, in primavera, Attis, svegliandosi dal lungo sonno, ritornava alla vita accolto con banchetti e mascherate. Il pino come metafora del dio morto e resuscitato, rimandava all’idea dell’alternanza delle stagioni.

Il mito di Attis fu interpretato allegoricamente come un’anticipazione pagana della Pasqua dai primi cristiani, che ripresero l’usanza di coronare i pozzi con le pigne, considerate i frutti dell’Albero della vita. Un collegamento simbolico tra la pigna e l’Albero della vita, lo si riscontra ad esempio in un mosaico del battistero del Laterano, nonché nella colossale pigna rinvenuta presso le terme di Agrippa e firmata da Publio Cincio Salvio, oggi nel Cortile della Pigna ai musei vaticani. (idem, pg. 35-36)

Simbolismi arborei, appannaggio oggi di un’élite di menti colte e incomprese, troppo spesso inascoltate, nel prosieguo ormai annoso, nel nostro paese, di un albericidio silente ma costante: dall’abbattimento frettoloso di ulivi centenari pugliesi, alla morte lenta delle nostre palme, fino al pinus pinea, appunto, un albero bello, dal tronco slanciato e longilineo,  dalla chioma verde intenso, la cui forma ad ombrello è lì pronta a donare, incondizionatamente, ombra e frescura a chi vi passa sotto, nonché i suoi famosi pinoli, semi del suo frutto, commestibili per l’animale-uomo. Decora le coste del Mediterraneo quest’albero e anche la città di Roma, ma solo a partire dagli anni ’30 dello scorso secolo! Un albero che, come denuncia l’Associazione Amici dei Pini – nata spontaneamente nel 2018 a villa Celimontana  intorno  allo storico degli alberi, Antimo Palumbo, suo promotore -, soffre della cattiva potatura e del conseguente attacco virulento di insetti malefici, problema risolvibile con un’adeguata pulitura e non potatura dell’albero e con la liberazione di insetti benefici su cui avrebbero la meglio. Più tardi poi nasce spontaneamente il Comitato Salviamo i Pini di Corso Trieste in difesa dei pini di uno dei viali “più iconici del Secondo Municipio, sui quali era piombata improvvisamente l’idea di sostituirli con altri alberi in fantasiosi scenari alternativi”, scrivono su fcb. E continuano: Abbiamo, insieme al Comitato, lanciato una petizione che ha ricevuto più di mille firme, abbiamo avanzato richiesta di monumentalità per lo storico viale, abbiamo interloquito con Municipio e Comune affinché si facessero indagini strumentali più approfondite sugli alberi per individuare quelli effettivamente instabili e scongiurare abbattimenti indiscriminati, organizzato una manifestazione per chiedere rispetto e cura. Eppure, come se tutto questo non fosse mai avvenuto, come se tutto questo impegno e queste energie dei cittadini non fossero mai stati spesi nell’interesse comune, come se il Comune non avesse investito soldi pubblici per monitorare e curare quell’albero, una mattina dell’Aprile 2021 una ditta, per conto di ACEA arriva a Corso Trieste, posiziona le transenne, prepara il cantiere e abbatte un albero risultato stabile nell’ultimo monitoraggio e sul quale era stata anche fatta l’endoterapia contro la Toumeyella parvicornis. Un albero sano, per la difesa del quale i cittadini si sono impegnati strenuamente, abbattuto senza preavviso per riparare una fognatura. Si poteva trovare una soluzione alternativa? Si doveva. Invece la risposta è stata: sarebbe costato troppo.Ci sono Paesi più civili nei quali il danno da perdita di un grande albero è considerato quantificabile ed è risarcibile. E infine: Se guardi un albero e vedi solo un albero allora non hai visto un albero. Se guardi un albero e vedi un miracolo allora hai visto un albero.

Scrive nel suo ultimo documento il prof. Giuseppe Altieri, agroecologo e ricercatore appassionato del nostro ecosistema, da anni difensore degli alberi e dei sistemi di cura non farmacologici, ma riconoscibili, perché propri, dall’ecosistema che da sempre ha convissuto e convive con i virus, imparando a difendersi da sé (per leggere il prof. Altieri cliccare qui il link qui di seguito): https://www.periegeta.it/it/2021/04/per-un-approccio-agroecologico-alla-cura-del-verde-pubblico-documento-dellagroecologo-giuseppe-altieri/

Nell’ascolto e nella lettura di queste voci allarmanti, la mia mente vola indietro fino al mito del Laocoonte, il quale scatenò l’ira di Atena per aver cercato, inutilmente, di far aprire gli occhi ai troiani riguardo alla realtà del gigantesco cavallo di legno, presunto dono degli avversari greci alla dea Minerva. Quando il sacerdote di Apollo infatti provò ad esternare la sua felice intuizione, i troiani non vollero ascoltarlo, tacciandolo di “visionario e complottista” (parole di cui si fa un abuso spropositato oggi, per zittire il dissenso?). E i serpenti marini, inviati dalla dea della caccia, protettrice del popolo greco, divorarono lui (il presente), i suoi figli (il futuro) e con essi la verità. E infine, Troia si ritrovò nel bel mezzo dell’inferno che tutti conosciamo!

E noi, quanto ancora resteremo ciechi e sordi all’urlo dell’orribile sofferenza di persone, animali e piante?

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