Mafia e criminalità al nord

Querele denuncie minaccie omicidi per zittire chi non vuole tacere

di redazione

riceviamo e pubblichiamo lettera del collega Cesare Giuzzi

cari amici, lo scrivo con profondo rammarico e con un forte senso di sconfitta. Negli anni ho partecipato a moltissimi convegni e dibattiti sul tema della criminalità organizzata al Nord. L’ho sempre fatto con il massimo entusiasmo, specie nelle realtà più piccole e piccolissime dove magari c’era solo una minuscola platea ad ascoltare. Magari in paesini dell’hinterland di Milano dove c’è la convinzione che nulla accada e che il problema più grande sia la poca o pochissima immigrazione, quando invece ormai da anni questi piccolissimi centri quasi rurali sono il nido preferito e invisibile delle famiglie più importanti della ‘ndrangheta in Lombardia. L’ho fatto sempre gratuitamente, non scrivendo libri non ho avuto la necessità di sottoporre la povera platea all’angoscia del volume in vendita sul tavolino all’uscita. L’ho fatto con ancora maggiore entusiasmo quando davanti c’era un gruppo di ragazzi giovanissimi, nei campi estivi di Libera, con i giovani ricercatori del corso di laurea in criminalità organizzata della Statale guidato da Nando dalla Chiesa, pur non essendo io né un professore né tantomeno un esperto, ma soltanto un cronista di cronaca nera maldestramente appassionato di alberi genealogici, vecchie carte e scontrini di bar nuovissimi e lucidissimi. Ogni volta che sono stato invitato – non tengo i conti ma mi sa che arriviamo vicini al centinaio di incontri – ho partecipato con entusiasmo, con gratitudine. E mi scuso con i pochi ai quali per impegni di lavoro inderogabili sono stato costretto a dire di no. Ma per partecipare agli eventi devo prendermi un giorno di ferie e non sempre è stato possibile. Anche in questo anno e mezzo di emergenza sanitaria gli incontri non sono mancati, in streaming o dal vivo. Gli ultimi due, nelle ultime settimane, con i ragazzi di Libera dentro al carcere di Bollate e con l’amico Andrea Tammaro a Libera Masseria per parlare di calcio, mafia e ultrà. Non sono un esperto né un professore, ho sempre cercato di portare il metodo del mio lavoro in questi incontri, magari raccontando ciò che spesso nelle grandi testate sfugge: chi c’è dietro quel bar nella piazzetta del paese, quell’impresa nobilissima che faceva affari con i boss dei rifiuti, quell’assessore comunale con il vizio di frequentare, in amicizia sia chiaro, i mafiosi. Una sorta di racconto locale, della porta accanto, della mafia al Nord, perché per raccontare le nobili storie di Peppino Impastato, di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ci sono amici e colleghi molto più qualificati di me. Io da cronista ho sempre cercato di far capire come la mafia sia invece molto più vicina (e simile) a noi di quanto la sua narrazione cinematografica, letteraria e da serie tv ci abbia fatto pensare. Penso sia stato un enorme privilegio per me aver potuto raccontare la storia dei Barbaro a Corsico e Buccinasco, ma anche a Gaggiano, Binasco, Trezzano o Noviglio. Essere stato a Desio a parlare di Moscato, Pio, Iamonte, a Como a ricordare la faida sotterranea tra i Muscatello e i giovani Morabito. In posti pieni di zanzare, in sale comunali spoglie, su sedie scomodissime durante le feste di paese. Tutte serate bellissime. Ho avuto il privilegio di farlo spesso insieme a magistrati, investigatori, studiosi con i quali è stato uno straordinario onore essere al tavolo.
Però, purtroppo, devo dire basta.
Negli ultimi anni oltre alle querele che arrivano per gli articoli sul Corriere (e dio benedica sempre l’abilità, la professionalità e l’infinta pazienza dell’avvocato Malavenda) sono iniziate ad arrivare anche querele per ciò che ho detto partecipando a incontri e dibattiti. A volte le persone erano in sala, altre hanno avuto filmati da qualche loro amico seduto in platea. Sono dibattiti pubblici e fa parte del gioco. Sono eventi ai quali partecipo da giornalista del Corriere ma in veste privata, quindi copro personalmente le spese legali. Non tutti lo sanno, ma se si viene querelati da qualcuno anche solo pretestuosamente – il 99,9 per cento delle querele si chiudono con una richiesta di archiviazione dello stesso pm per assenza di diffamazione -, chi vi denuncia ha la possibilità di chiedere al momento della presentazione della querela l’opposizione all’archiviazione. Significa che se il pm non vede alcun reato in quello che avete detto o scritto e chiede al gip che l’indagine venga archiviata perché, in sostanza, non avete commesso nulla per cui essere giudicati, chi vi ha querelato vi costringa a prendervi un avvocato per farvi assistere nell’udienza di archiviazione davanti al gip. Udienza che si conclude nel 9999,99% dei casi comunque con l’archiviazione. Voi però avrete dovuto pagare un legale, preparare una memoria difensiva, produrre migliaia di pagine di atti giudiziari e inchieste a difesa di quello che avete sostenuto e ovviamente sostenere le spese legali. Ho sempre trovato questa norma un po’ bizzarra, è come se io che ti querelo non credo al pm che ha fatto le sue valutazioni e mi dà sostanzialmente torto e allora, già prima di iniziare la partita chiedo che in caso di sconfitta possa comunque andare ai rigori (l’udienza dal gip) sperando di giocarmela lì. Non la capisco perché non mi spiego come si possa ricorrere per queste cose contro lo stesso pm, che in sostanza dovrebbe essere quello che avrebbe dovuto sostenere l’accusa contro di me. E non si può certo considerare perché mi ha dato ragione come se fosse il mio avvocato difensore. Credo sia un esempio di legge che tutela chi accusa e non chi si difende. Però funziona cosi. E sempre chi querela un giornalista per diffamazione firma a priori l’opposizione all’archiviazione. Nei fatti significa anche che ci sarà un poliziotto o un carabiniere costretto a venirvi a cercare per identificarvi, farvi firmare la nomina di un legale, darvi copia della convocazione. Ormai sono cosi di casa che spesso mi chiamano e vado io in caserma a ritirare gli atti risparmiandogli la fatica di darmi la caccia. All’inizio il portinaio pensava fossi una sorta di Pablo Escobar vedendo poliziotti e carabinieri che mi venivano a cercare quasi ogni settimana.

Prima querelavano solo per gli articoli sul giornale, e meno male che il Corriere ha un’ottima copertura legale. Ora lo fanno per gli interventi pubblici, per le cose dette magari durante la partecipazione a servizi e inchieste televisive. Nella vita, come molti giornalisti, sono stato querelato più di una cinquantina di volte da mafiosi, criminali, assassini, rapinatori, politici corrotti e non, amministratori pubblici, famigliari di mafiosi, poliziotti, carabinieri, imprenditori, gestori di locali, dai genitori di un ragazzo morto suicida che non accettavano che avesse scritto nella lettera d’addio che la sua vita era stata agli occhi della famiglia un fallimento. Una volta, per lo stesso articolo sulle società svizzere dei Papalia, sono stato querelato 6 volte da 6 persone diverse: boss, moglie, figlia, genero, prestanome… Sono stato querelato da una tizia, di cui neppure facevo il nome, che a proposito della vicenda di una festa in odore di ‘ndrangheta aveva scritto in un commento Facebook su un gruppo di paese “Babbo Natale portami 10 chili di tritolo”. O da un dirigente di polizia che frequentava assiduamente locali e discoteche. Sono stato querelato da un generale dei carabinieri quando ero presidente del Gruppo cronisti per aver criticato un video diffuso alla stampa dagli investigatori durante l’inchiesta sul delitto di Yara. Anche in questo caso con spese legali a mio carico.
Querelare è un diritto, sia chiaro. Finora per fortuna nessun giudice mi ha mai dato torto. Ma se vinci tu non è che ti danno un risarcimento per le accuse ingiustamente subite. Avevi semplicemente ragione. Stop.

Adesso però non ne posso più. Per questo mi prendo una pausa. Non posso trascorrere le mie giornate a preparare memorie difensive, ricostruire fatti e documenti e, soprattutto, sperare che alla fine vada tutto bene. Perché ogni udienza davanti al giudice è da 1X2, anche se arrivi con i favori del pronostico. C’è chi ti accusa, chi ti deve giudicare, chi ti difende, ma alla fine l’imputato (propriamente, l’indagato) sei tu. E se va male devi affrontare un processo. Non è persecuzione nei miei confronti, è un problema generale italiano e del rapporto con l’informazione perché un giornalista può essere (e anzi viene) querelato anche se dice la verità. Chi querela non rischia nulla. Ci prova e al limite paga l’avvocato. Stop.
Penso che l’autocensura sia il più grande peccato per un giornalista. Ma è la mia sola via. Non riuscirei a partecipare a un evento raccontando che un avvocato ha detto, un politico ha fatto. I giornalisti hanno il dovere di essere precisi, puntuali e raccontare, quando la conoscono, la verità. Parlare in modo generico, non attribuire nomi e cognomi ai fatti rischia solo di essere un colpo sparato nel mucchio e gettare discredito su tutti gli avvocati, tutti i politici, tutte le persone. Io senza poter fare nomi e cognomi non farei il mio mestiere, punto. Quindi, consentitemelo, preferisco chiudere qui.

Grazie per gli inviti che già mi sono arrivati per l’autunno. Parteciperò a un solo evento a metà settembre in un’altra regione perché ho già detto sì mesi fa. Ma sarà il mio ultimo appuntamento. Spero che possiate capirlo.

In privato ci sarò sempre, per una carta da cercare nel mio archivio, per un confronto, per qualsiasi cosa. Ma il resto purtroppo deve finire.

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