La tragedia quotidiana a danno della salute dei lavoratori

Prevenzione negli ambienti di vita e di lavoro

Sicurezza sul lavoro

di Claudio Mendicino Medico del lavoro – Ispettore nel Servizio sanitario pubblico

Come prevedibile, a ridosso degli ultimi tragici eventi mortali che continuano a falcidiare vite di lavoratori e a devastare intere loro famiglie è ripartito il coro di indignazioni e buoni propositi a cui siamo tutti, purtroppo, abituati nonché delusi per l’assenza di conseguenti provvedimenti di benché minima efficacia.

Sono certo che tale comportamento, che accomuna Istituzioni, Parti sociali, Organi di informazione, Ispettori di ogni genere e provenienza, non veda coinvolte le SS.LL., ma perché l’indignazione e i buoni propositi trovino concreto e incisivo sbocco, presupposto indispensabile è conoscere adeguatamente e compiutamente il contesto generale e particolare in cui i fatti di cui sopra avvengono.

E le dichiarazioni rilasciate dagli esponenti delle entità di cui sopra (nonché, purtroppo, i relativi comportamenti) dimostrano la completa disconoscenza della realtà.

Sono un medico del lavoro che da sempre, e per deliberata scelta, opera all’interno del sistema sanitario pubblico: per intenderci, un ispettore medico del lavoro di un’ASL (lavorando in Lombardia, una ATS), impegnato tutti i giorni, e da ormai quarant’anni, sul fronte della prevenzione dei rischi lavorativi e della repressione di comportamenti illeciti nei luoghi di lavoro. E’ per questo che mi permetto di segnalare alcune evidenze in merito a salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, incredibilmente, oltre che colpevolmente, trascurate e omesse nelle discussioni e nelle proposte che tutti i giorni vediamo emergere dai media e dagli eventi organizzati nella materia in questione.

NON SOLO MORTI SUL LAVORO. Se a far clamore sono, comprensibilmente gli infortuni sul lavoro ad esito mortale (538 segnalati INAIL nei primi sei mesi del corrente anno), non bisogna dimenticare la miriade di altri eventi infortunistici (266.804 denunciati -non tutti quelli accaduti, quindi – nello stesso periodo) spesso esitanti in gravi o gravissime compromissioni permanenti dell’integrità psico-fisica, nonché i tantissimi casi dì malattie di natura professionale (28.855 da Gennaio a Giugno, per restare alle denunce INAIL, notoriamente di molto sottostimate), in grado di menomare significativamente la salute e la stessa idoneità al lavoro, quando non di condurre a morte, come nel caso dei tanti tumori di origine lavorativa.

CHI VIGILA SUI RISCHI LAVORATIVI. Nelle ultime settimane si sono ancora una volta sentite levare voci disparate che lamentano la carenza di risorse, in particolare umane, da destinare ai cosiddetti “controlli” negli ambienti di lavoro: oltre agli organi d’informazione, ai Sindacati, alle Associazioni dei datori di lavoro, ad autorevoli (o meno) esponenti del Governo e del Parlamento della Repubblica Italiana, nonché dei corrispettivi regionali, anche entità a vario titolo coinvolte nella gestione dei rischi e dei danni da lavoro. In particolare, l’Ispettorato Centrale e Territoriale del Lavoro e l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL). Non una di queste voci ha dimostrato di conoscere (o di voler rivelare) la realtà dei fatti: i controlli sulla sicurezza e sulla salute dei lavoratori competono quasi esclusivamente agli operatori (ispettori e non) delle Aziende Sanitarie Locali, con l’integrazione, esclusivamente su materie di stretta competenza, di personale ispettivo del Ministero del Lavoro e del Corpo Nazionale dei Vigili del fuoco (art. 13 D.Lgs. 81/2008). Quanto all’INAIL, sistematicamente impegnato a rivendicare strabilianti cifre di accertamenti e ispezioni nelle aziende, dovrebbe ricordarsi di precisare che tali “controlli” sono per lo più finalizzati a individuare l’esistenza o meno di requisiti per l’attribuzione dell’origine professionale a danni più o meno gravi per la salute e l’integrità dei lavoratori (cosa che i colleghi dell’INAIL farebbero bene a riconoscere con maggior facilità, evitando a lavoratori e loro rappresentanze l’onere di continui ed estenuanti ricorsi) e non a prevenirne eventi ed effetti. Potenziare la capacità ispettive di tali apparati è essenziale per le relative competenze (basti pensare all’influenza nefasta esercitata dal lavoro nero e grigio sugli accadimenti infortunistici e lesivi in generale), ma se non si decide di mettere in campo un massiccio contingente di ispettori delle ASL, non si potrà mai ottenere neppure l’accenno ad un’inversione di tendenza. D’altra parte, se gli enti citati hanno vertici centrali in grado di perorarne la causa, le ASL in virtù dell’afferenza regionale non godono di una rappresentanza nazionale (grazie alle mai troppo vituperate modifiche al Titolo V della nostra Carta Costituzionale!); né di ciò pare occuparsi la Conferenza delle Regioni e il suo Presidente On. Massimiliano Fedriga, a cui competerebbe, insieme agli altri Presidenti di Regione, il rafforzamento della prevenzione negli ambienti di vita e di lavoro. Il risultato è l’oscuramento del problema, con buona pace dei questuanti.

QUALI CONTROLLI. Ritenere risolto il problema dei controlli con il solo potenziamento
degli organici dei dipartimenti di prevenzione delle ASL sarebbe, però, un grave errore, se
tale rafforzamento non venisse coniugato con una profonda rivisitazione delle modalità
operative degli interventi ispettivi e con una efficace attività formativa delle nuove risorse
eventualmente arruolate (anche mediante il loro affiancamento, attualmente inesistente, ad
operatori esperti in procinto di lasciare, a vario titolo, il servizio). Da qualche anno, nel nome
di una malintesa attività di assistenza e di promozione in materia di sicurezza e salute nei
luoghi di lavoro, l’esercizio di vigilanza vera e propria si è andata via via affievolendo, a
favore di una sorta di compartecipazione alle funzioni di prevenzione proprie delle aziende,
che di fatto contrasta con l’attività di vigilanza stessa. In particolare, intendo riferirmi
all’imperante diffusione dei cosiddetti “piani mirati di prevenzione” (pmp), la cui metodologia
(in sintesi: individuazione di standard di sicurezza mirati per comparto lavorativo e/o per
tipologìa di rischio, sui quali viene richiesto alle imprese di “autovalutarsi”, limitando
l’intervento ispettivo a quelle non collaboranti – veri e propri modelli di autolesionismo,
stante le garanzie di impunità offerte – e ad una sparutissima percentuale, tra il due e il quattro
per cento, di aziende individuate a caso) ha ridotto ai minimi termini l’attività ispettiva
propriamente detta, confinandola all’esercizio di polizia giudiziaria su eventi già accaduti:
infortuni sul lavoro e malattie professionali. L’apoteosi dell’inefficienza e del fallimento del
sistema, costretto a prendere atto che la poca attività “concreta” si esegue sul latte versato,
essendo stato incapace di evitare di versarlo.

E’ avvilente constatare l’adeguamento acritico (spesso sconfinante nella complicità) di gran parte degli operatori, dirigenti e di comparto, a questo sistema ormai imperante nei servizi di vigilanza nei luoghi di lavoro e difficilmente si riuscirà a scardinarlo, se non si decide di riqualificare una “performance” puramente quantitativa (sulla base dei numeri prodotti si attribuiscono risorse economiche aggiuntive, che costituiscono buona parte del salario accessorio di risultato) con parametri di qualità e di efficacia dei controlli. In sostanza, la modalità operativa dei pmp è diventato il meccanismo ideale con cui ottenere elevati numeri di prestazioni (gli pseudocontrolli costituiti, nella realtà, da autocontrolli aziendali) a fronte di risorse umane sempre meno numerose e qualificate.

DISTRAZIONE DELLE COMPETENZE. A completare il quadro e, contestualmente, confermarne la drammaticità, basti vedere come le ASL abbiano inteso (e intendano tuttora, anche se con maggior moderazione, ad oltre un anno e mezzo dall’inizio della pandemia) fronteggiare l’emergenza CoViD-19 depredando i servìzi di prevenzione negli ambienti di vita e di lavoro e trasferendo relativo personale alla gestione di tracciamento dei contagi e di procedure accessorie, lasciando sguarniti ì contingenti di potenziali ispettori, nonché consentendo lo svolgimento massiccio di lavoro agile (ancora oggi, seppur marginalmente, esercitato) anche a personale espletante funzioni ispettive!

POTERE DELLA FORMAZIONE. Altro luogo comune da sfatare è costituito dall’abusata locuzione “cultura della prevenzione”, la cui carenza necessiterebbe di ulteriore attività di formazione e di sensibilizzazione. Decenni di lavoro sul campo mi hanno convinto che la cultura della prevenzione, di certo argomento da affrontare con una rivoluzione completa del curriculum formativo ed esperenziale del cittadino, prima ancora che del lavoratore, fin dalla più tenera età, va inculcata con le buone, ma anche con le cattive maniere. Tn sostanza, se datori di lavoro e dirigenti aziendali a parole sbandierano principi di civiltà lavorativa, ma nei fatti professano l’esatto contrario, la “cultura della prevenzione” deve essere loro imposta attraverso punizioni severe, ma soprattutto certe: allo stato attuale la probabilità di incorrere

in sanzioni è talmente bassa da disincentivare comportamenti virtuosi in soggetti caratterizzati dall’assenza, o quasi, di ogni etica. E, quindi, anche sul versante formativo, bisogna smettere di foraggiare provider privi di capacità e di reale volontà educativa, facendo in modo che anche gli accertamenti sulla qualità della formazione cessino di essere pura formalità (la mera verifica di una firma – non di rado estorta – in fondo al foglio che ratifica l’avvenuta formazione) e diventino anch’essi occasione di controllo sul campo, non escludendo il concreto riscontro del reale apprendimento, spesso solo di facciata. 6. MODIFICHE ALLA LEGISLAZIONE SULLA SICUREZZA. Si parla molto della necessità di modificare le vigenti leggi in materia di salute e sicurezza sul lavoro, inserendo norme che, ad esempio, prevedano la sospensione dell’attività in caso di gravi violazioni o di reiterazione delle stesse; oppure introducendo strumenti di penalizzazione come la “patente a punti”. A prescindere dal fatto che, se ben applicate, le vigenti normative (nello specìfico il D.Lgs 81/2008, al comma 2 dell’art. 14) già prevedono la possibilità di sospendere l’attività dell’impresa in caso di reiterazione delle relative violazioni, le proposte di modifica di cui sopra presuppongono la capacità di accertare tali inosservanze, ricadendo nei lìmiti e nelle condizioni di cui ai precedenti punti 2 e 3. A meno di non volersi accontentare dì “punire” solo le imprese (non sempre e non tutte) che abbiano già prodotto danni a carico delle proprie maestranze e che proprio per queste siano state “scoperte”. Non di vendette si ha bisogno, ma di giustizia e, soprattutto, di impedire l’accadimento di eventi lesivi.

Di sicuro, miglioramenti alle norme vigenti potrebbero e dovrebbero essere apportati, ma non semplificando gli argomenti, alla ricerca di pseudosoluzioni, utili solo alla propaganda di chi le propone. Mi riferisco, ad esempio, alla qualificazione e al rafforzamento del ruolo e delle prerogative del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS). facendo si che quanti di essi interpretano il ruolo in modo coscienzioso ed efficace (caratteristiche non proprio diffusissime nell’attuale contesto) possano godere, in virtù di precise disposizioni normative, di garanzie di esercizio (basti pensare alla necessità di ripristino della facoltà di acquisizione del documento di valutazione dei rischi, senza il ridicolo e improponibile limite della consultazione in azienda, oppure al diritto di essere sistematicamente coinvolti nelle attività di controllo degli organi di vigilanza) e di protezione assoluta da eventuali rappresaglie da parte di datori di lavoro, dirigenti e preposti, intenzionati a “farla pagare” per il solo fatto dì avere svolto il dovere di rappresentanza conferito dai propri compagni di lavoro. Degna di sovvertimento, se davvero si intende favorire e rendere efficace la sorveglianza sanitaria dei lavoratori esposti a rischi specifici per la salute e la sicurezza, è inoltre la dipendenza diretta del Medico competente dal potere economico del datore di lavoro, sulla cui base il professionista risulta ricattabile nello svolgimento del proprio, importante esercizio: se non si seguono le disposizioni datoriali, si rischia di essere messi alla porta, con buona pace dell’autonomia professionale del medico, stante la possibilità di nominare e di revocare in qualsiasi momento il mandato conferito al sanitario. Sempre più frequentemente, nell’attività dei servizi di prevenzione, ci tocca assistere a penose prostrazioni del medico competente al volere (e potere) economico sovrastante e sempre meno sono ì colleghi che rifiutano tali imposizioni, mettendo a rischio il posto e l’onorario nel nome di un’etica superiore, per la quale hanno intrapreso la propria carriera professionale. Una soluzione “alla francese”, secondo cui il datore di lavoro finanzia, com’è giusto che sia, le prestazioni del medico competente, contribuendo (secondo parametri oggettivi, quali il numero di lavoratori esposti, l’indice di rischio delle attività svolte, le difficoltà logistiche nell’effettuazione della sorveglianza sanitaria, ecc.) alla creazione di un fondo cogestito da parte pubblica e parti sociali, a sua volta erogatore dei compensi del professionista, a questo punto svincolato dalla pressione diretta del datore di lavoro.

A conclusione della presente comunicazione, e senza alcuna pretesa di esaustività, vorrei modestamente sperare di aver contribuito a migliorare la conoscenza dei fenomeni che realmente e quotidianamente impediscono di interrompere la drammatica sequenza dì avvenimenti luttuosi a cui siamo quotidianamente costretti ad assistere, nella speranza di favorire un Loro intervento in grado di sollecitare l’adozione di soluzioni concrete, in assenza delle quali ci toccherà solo prendere atto degli eventi, senza poterli condizionare.

Ringrazio per l’attenzione che si sarà voluta prestare e resto in fiduciosa attesa di segnali fattivi di recepimento.

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