Luci ed ombre della cultura digitale

Quis custodiet custodes?

Visitatori alla mostra Nagoya, ottobre 2021, Tokyo usano l'ombrello aperto per il distanziamento sociale Ph.(Mainichi/Koji Hyodo)

di Marina Mascetti

Prima dell’era digitale lo studio era una cosa seria e impegnativa, riservata ai “topini da biblioteca”, asceti che passavano la vita fra gli scaffali polverosi. Bisognava andare fisicamente nelle biblioteche, scartabellare per ore negli schedari per tirar giù le sigle dei libri; cercarli di persona o farseli portare dai depositi (pochi alla volta), e aspettare. Se si era fortunati si potevano fare le fotocopie, altrimenti bisognava trascriverli a mano, come gli amanuensi del Medioevo.

I primi studiosi che si presentarono in Biblioteca con un computer portatile vennero guardati come pericolosi modernisti: col rumore dei tasti disturbavano il sacro silenzio degli antri del Sapere.

L’informatica ha rivoluzionato tutto: oggi i cataloghi delle principali biblioteche sono online, si trovano libri e sigle prima di andarvi fisicamente. E poi con una parola chiave si scovano altri testi sull’argomento che interessa, cosa impensabile col cartaceo.

La Biblioteca Apostolica Vaticana ad esempio ha digitalizzato e messo in vendita a prezzi ragionevoli parte dei suoi immensi archivi, specie i manoscritti rari. Molte Biblioteche li hanno messi gratuitamente a disposizione sempre online, e vi sono altri siti specializzai in testi antichi di ogni argomento, per i quali non c’è più il copyright.

Per chi abbia voglia di studiare si aprono quindi orizzonti di conoscenza un tempo impensabili. Ma per la Cultura l’informatica è un’arma a doppio taglio: dipende dall’uso che se ne fa.

L’aspetto positivo è avere un’immensa biblioteca in casa, a portata di mano in qualsiasi momento. Grazie a siti come Academia.edu o ResearchGate si possono pubblicare online i propri studi a costo zero. Ed entrare in contatto con altri studiosi senza l’intermediazione di Istituti o Università.

Vi sono però diversi aspetti negativi.

1 – La lettura e la comprensione di un testo.

Per chi è nato nell’era analogica, lavorare sulla carta, annotare e sottolineare serve a concentrarsi, a ricordare meglio. La lettura su schermo è più rapida ma dispersiva e superficiale. Non aiuta la memoria visiva, che ricorda se l’informazione che interessa fosse in alto o in basso, a destra o a sinistra.

2 – La selezione critica della fonte.

Gli studenti di oggi pur avendo a disposizione biblioteche virtuali pressoché infinite si accontentano della pagina di Wikipedia che generalmente è la prima della lista, e di rado scendono alla seconda che in Italia per fortuna è spesso quella dell’Enciclopedia Treccani. Tutto rigorosamente in italiano.

3 – Il pensiero critico.

Gli studenti non scrivono le loro ricerche con parole proprie: fanno un collage di ‘copia e incolla’, senza vagliare criticamente le informazioni, senza risalire alla fonte primaria, e spesso senza dare ai dati un ordine logico sviluppando una tesi. Purtroppo il ‘copia e incolla’ agevola il plagio di studi altrui senza citare la fonte.

4 – La fede illimitata nell’informatica.

Un libro cartaceo (se non brucia) sarà leggibile anche fra mille anni. Windows ’98 è illeggibile già da un pezzo e non c’è nessuna garanzia sulla durata nel tempo degli attuali supporti digitali. Basta un click o un black-out per cancellare intere biblioteche, cosa che tanti scoprono quando è troppo tardi per fare il backup. Oggi molte biblioteche per risparmiare spazio preferiscono avere i testi in formato digitale, con tutti i rischi connessi. Reale e virtuale non sono la stessa cosa.

5 – La censura.

Ci sono varie iniziative dei colossi del web per una utopistica trasformazione in digitale di tutto il sapere scritto. Per loro il backup cartaceo non serve, occupa troppo spazio, i bibliotecari costano (vale il discorso di prima sull’affidabilità e durata del supporto digitale). Tutto gratis, naturalmente, nel nome della Cultura Universale: il che significa che “il prodotto siamo noi”, quindi dovremo dar loro qualcosa in cambio.

Cosa sia è presto detto: rinunciare ad alcuni testi chiave della nostra cultura. Basti pensare alla ‘Cancel Culture’ o al ‘Woke’ americani, che odiano l’uomo bianco (razzismo alla rovescia) e vogliono riscrivere la storia. Come in “1984” di Orwell, dove il protagonista riscriveva i vecchi documenti per adattarli alle necessità della propaganda del Grande Fratello.

Con la scusa del politicamente corretto o del “non urtare la sensibilità” altrui (mai la nostra) è partita una selezione dei libri da tenere o da cancellare. Avevano già iniziato censurando le favole di Cenerentola e Biancaneve, o film come Via col Vento, per attaccare persino le tragedie greche perché misogine. Adesso passano ai libri.

Recentemente, guarda caso, hanno messo all’indice proprio “1984” di Orwell. C’è una censura sempre più occhiuta e crescente del pensiero non allineato alla narrazione ufficiale. Mentre in Cina se ne occupa lo Stato, in Occidente la sorveglianza è affidata ai privati, cioè ai ‘Social’, che oggi dispongono di mezzi infinitamente più potenti di quelli dell’Inquisizione.

Ma la domanda rimane sempre la stessa, ora come allora: chi è che decide, e sulla base di quali criteri? Ovvero: «Quis custodiet custodes?», come chiedevano Giovenale e prima di lui Platone.

La questione più tragicamente attuale in materia di Cultura è però quella della famigerata DAD o Didattica a Distanza, che rispecchia in pieno l’efficienza del governo italiano, essendo affidata a ministri della Pubblica (D)istruzione privi di titoli di studio (la Laurea invece è richiesta per i bidelli).

La DAD ha cancellato il rapporto diretto con gli insegnanti e coi compagni di classe, e quindi gran parte della vita sociale ed emotiva di bambini e adolescenti. Le conseguenze sono state devastanti sul piano psicologico: i suicidi fra gli adolescenti sono aumentati in modo esponenziale e così pure le tossicodipendenze, l’alcolismo e il bullismo, l’apatia, il senso di inutilità, la paura del futuro, tutti segnali gravissimi di qualcosa che non va. Ma nessuno ne parla, non fanno statistica.

La DAD ha eretto a sistema il perseguimento dell’ignoranza di massa. È chiaro da tempo che l’istruzione e soprattutto l’insegnamento del pensiero critico non siano fra gli obiettivi primari del Ministero. Meglio i banchi a rotelle e l’alternanza scuola-lavoro.

Come scriveva la grande antropologa Ida Magli, il Potere non vuole tra i piedi cittadini capaci di pensare con la propria testa, che potrebbero creare problemi. In primis cerca di cancellare (o riscrivere) l’insegnamento della Storia, proprio perché “maestra di vita”: non sia mai che qualcuno scopra che certe cose sono già accadute e ne tragga insegnamento.

Ma adesso si sta cancellando l’istruzione tout court, partendo dalle scuole primarie, con la roulette russa dei contagi, dei positivi, dei vaccini e delle quarantene. A scuola si fa di tutto, tranne insegnare; va già bene che imparino a scrivere, col far di conto iniziano i problemi.

Se allevi (come i polli) dei cittadini ignoranti e conformisti, puoi dar loro a bere qualsiasi cosa. Se inizi prima dei sette anni di età, puoi dare ai bambini un imprinting che li condizionerà per tutta la vita, come insegnavano i Gesuiti, che in materia vantano un’esperienza secolare.

Siamo di fronte ad un mostruoso progetto di ingegneria sociale che ovviamente prende di mira i più piccoli, più facili da plasmare e manipolare, perché così si è sempre fatto. Per creare l’homo novus informatico, postmoderno e prossimamente anche transumano. Forse rimanere analfabeti è meglio.

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