L’attitudine al coraggio di applicare la Costituzione

A che punto siamo

di Maria Luisa Visione

Una frase che ricorre frequentemente quando si vuole dare atto di un’evoluzione, di un avanzamento. Forse è per questo che non sembra risuonare se l’oggetto su cui oggi occorre fare il punto della situazione è l’applicazione della nostra Costituzione.

La Carta Costituzionale è la legge fondamentale dello Stato italiano, si trova al primo posto nella gerarchia delle fonti legislative, sancisce i diritti fondamentali, nasce con l’obiettivo di determinare principi quasi inamovibili, che non presentano scadenza.

Per il ragionamento e le riflessioni che mi accingo a fare non ci porteremo lontano: ci basterà rimanere all’interno di alcuni capisaldi. Ritengo doveroso approfondire come e quanto, a cavallo del 2021, con una dichiarata pandemia sistemica ancora in corso, ci stiamo adoperando per verificare che quanto è scritto nella nostra Costituzione venga realmente applicato.

Non si tratta solo e semplicemente di un dovere morale: è un atto dovuto, è un’azione di controllo obbligata da parte di ognuno di noi. Non solo in capo a coloro che assumendo la funzione e il mandato hanno giurato fedeltà e rispetto ad essa; mi riferisco al Capo dello Stato, ai membri del Governo, ai presidenti delle deputazioni regionali, ai magistrati, alle forze armate. È un atto dovuto da parte di tutti in memoria e in difesa di diritti che mai dovrebbero essere violati e dimenticati.

Il primo in assoluto che ispira e sul quale si fonda tutto l’apparato costituzionale è il diritto al lavoro.

Solo il lavoro restituisce dignità ed eguaglianza all’essere umano: in una qualsiasi realtà civile dovrebbe rappresentare la prima e più importante sfida. Il famoso 3% inventato a tavolino senza nessuna base scientifica per attuare il Patto di stabilità, avrebbe dovuto essere il numero di riferimento massimo come percentuale di disoccupazione tollerabile, non il parametro di riferimento per definire, di conseguenza, quanta spesa pubblica necessita per le ragioni dell’economia reale di uno Stato.

La domanda che pongo ai parlamentari e ai senatori è quanta attitudine al coraggio serve rispetto alle regole comunitarie accettate per affermare che “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 secondo comma).

Ci è capitato spesso di sentire la rievocazione di queste parole da parte di molti negli ultimi anni. Ci siamo mai davvero soffermati a riflettere? Siamo capaci di affermarne il valore o ci dirigiamo verso slogan e luoghi comuni non rispettando il dettato dei Padri Costituenti? Come possiamo pensare che un uomo o una donna abbiano la voglia, la fiducia, il desiderio di partecipare alla politica e allo sviluppo del loro Paese se non hanno lavoro, se smettono di cercarlo, aspettando di ricevere magari un sussidio o un aiuto economico per andare avanti?

Questa non è una faccenda legata al Covid 19; la questione comincia da prima e si trascina da tempo. Tuttavia, come accade quando l’uragano arriva senza essere preparati e strutturati, l’impatto pandemico irrompe, è straordinario, eccezionale, di difficile gestione perché amplifica e acuisce problemi che non avrebbe dovuto trovare così radicati.

Non avrebbe dovuto trovare un sistema sanitario senza posti letto e terapie intensive, al pari di un terremoto che non dovrebbe trovare abitazioni e terreni senza argini e difese strutturali.

Non avrebbe dovuto trovare un tasso di povertà assoluta inaccettabile.

Non avrebbe dovuto trovare la disoccupazione giovanile, il numero di inattivi e le persone in cerca di lavoro in continuo aumento.

Ma torniamo alla Costituzione. Il diritto al lavoro cade oggi inesorabilmente di fronte a questi numeri: tasso di disoccupazione a ottobre 2020 del 9,8%; 30,3% tra i giovani.

Addentrandoci nel corpo costituzionale, nei Rapporti economici si parla di tutela del lavoro; tutela possibile quando il lavoro c’è e realizzabile attraverso l’istruzione e la formazione che rappresentano gli ingredienti fondamentali del capitale umano, della capacità di ergersi da una classe sociale e da una condizione economica di partenza grazie all’impegno e agli strumenti necessari per partecipare all’evoluzione contestuale.

Impegno che trova nella retribuzione adeguata e commisurata alla qualità e alla quantità del lavoro prestato l’espressione più civile di un sistema equo (art. 36).

Accade, infatti, che la retribuzione non dovrebbe essere l’esito dell’andamento economico sfavorevole o della richiesta di lavoro in surplus, perché se condividiamo questo, a mio parere, consideriamo il lavoratore come una merce. Se, però, poniamo il lavoratore al pari di un qualsiasi bene o servizio, prescindiamo dalla considerazione della persona, dal diritto a una vita dignitosa e libera. Rendiamo il lavoratore schiavo e lo sottopaghiamo. Il risultato è distruggere le fondamenta della nostra Repubblica democratica contenute nell’art. 1 e nel secondo comma dell’art. 3, ritenuto il più importante dell’intera Costituzione dal Padre Costituente Piero Calamandrei. Il risultato oggi è che viene giustificato l’indifendibile, basti pensare ad alcuni salari o a stage non remunerati, mentre non permettiamo alla persona di esprimere il suo valore e di immaginare il suo futuro.

Ribadisco: viene sottovalutato il fatto che non è possibile aspettarsi maggiore partecipazione politica e coinvolgimento sociale se la persona non viene messa in grado di essere libera economicamente e finanziariamente.

Nella Costituzione lo spazio dedicato alla tutela delle fragilità è ampio, dai minori agli inabili, dai minorati alle differenze di genere. Eppure, chi sta pagando lo scotto della pandemia sono ancora una volta i più vulnerabili, i precari, le famiglie che già erano in difficoltà. Inoltre, un’ampia schiera di nuove vulnerabilità si sta facendo strada: tutti coloro che fino a ieri avevano un’attività produttiva, un’azienda, un’attività commerciale in grado di generare reddito nel contesto pre Covid; una sicurezza costruita con sacrificio e tempo che si è trasformata in incertezza assoluta a causa del distanziamento, delle restrizioni, delle chiusure, senza sapere fino a quando.

Arriviamo a un altro punto: la tutela del risparmio. Le persone vivono nella paura che lo Stato abbia bisogno da un giorno all’altro di applicare una patrimoniale per recuperare soldi subito, così come non dimenticano il bail-in, l’aver autorizzato una legge che permette di far fronte a una situazione di dissesto bancario con i soldi dei risparmiatori. La disciplina e l’esercizio del credito non sono più autonomia nostra, abbiamo ceduto non solo la sovranità monetaria, ma la liquidità del sistema bancario tutto, oggi completamente dipendente ad ogni passo sospinto dalle decisioni e dalla politica della Bce.

In conclusione, rivolgendomi alla politica chiedo se possiamo dire onestamente e consapevolmente che stiamo facendo tanto quanto è necessario per applicare la nostra Costituzione.

E se la risposta è che non possiamo perché ci sono degli impedimenti reali di politica economica, monetaria, sociale e fiscale, occorre trovare il coraggio di abbandonare luoghi comuni e di mettersi a studiare a tavolino cosa dobbiamo cambiare. Non oggi. Da ieri.

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