TAIWAN, CINA E STATI UNITI: RETORICA DI GUERRA O ESERCIZIO DI DETERRENZA?

UNA RIFLESSIONE SULLE DINAMICHE COMUNICATIVE RICORRENTI NELLA POLITICA ESTERA STATUNITENSE: IL CASO TAIWAN TRA PERCEZIONE DEL RISCHIO E COSTRUZIONE STRATEGICA DELLA MINACCIA.

Di Antonio Monopoli

Una riflessione sulle dinamiche comunicative ricorrenti nella politica estera statunitense: il caso Taiwan tra percezione del rischio e costruzione strategica della minaccia.

In questi ultimi giorni, dichiarazioni provenienti dagli Stati Uniti – in particolare dal Segretario alla Difesa – hanno riportato in primo piano la possibilità di un attacco imminente da parte della Cina contro Taiwan. È stata evocata una “minaccia reale e potenzialmente imminente”. Una frase che, se presa alla lettera, implicherebbe che il mondo si trovi a un passo da un conflitto tra superpotenze. Ma è davvero così? Oppure ci troviamo davanti a una classica costruzione strategica e retorica statunitense, utile a ridefinire i fronti, rafforzare alleanze e, perché no, compattare il fronte interno contro un “nemico esterno”? Il sospetto è lecito, anche alla luce della lunga storia americana in materia di giustificazioni belliche, come nel caso delle inesistenti armi di distruzione di massa in Iraq, usate nel 2003 per giustificare l’intervento americano.

Oggi il quadro è diverso ma non meno delicato. Donald Trump è oggetto di una pressione intensa: politica, istituzionale, mediatica e internazionale. L’amministrazione è polarizzante, le decisioni presidenziali sono spesso controverse, e la tenuta del sistema democratico americano viene periodicamente messa in discussione, sia all’interno che all’estero.

La Cina si prepara a invadere Taiwan?

Partiamo dal fatto militare, per rispondere con chiarezza alla domanda centrale: la Cina sta davvero per invadere Taiwan?

La risposta, ad oggi, è no. Le forze armate cinesi hanno intensificato le esercitazioni militari attorno all’isola: simulazioni di blocchi navali, attacchi a lungo raggio, incursioni aeree nei pressi della zona di identificazione taiwanese. Tutto ciò è reale, documentato e coerente con una strategia di pressione psicologica e diplomatica nei confronti di Taipei.

Ma mancano i segnali precisi che precederebbero una reale invasione: nessuna mobilitazione navale di massa, nessun dispiegamento esteso di forze logistiche, nessun attacco cibernetico sistemico o coordinato. Un’operazione anfibia contro Taiwan – una delle imprese più complesse immaginabili nel panorama bellico moderno – richiederebbe settimane di preparazione logistica e militare visibile, con preposizionamento di navi, truppe e rifornimenti, e produrrebbe tracce inequivocabili, osservabili da qualsiasi centro di intelligence occidentale.

Ciò che vediamo, invece, è una Cina che esercita pressione e manda segnali, ma che al contempo valuta costi, rischi, reazioni. Xi Jinping ha più volte dichiarato di voler “riunificare” Taiwan, ma preferibilmente senza sparare un colpo. Tuttavia, non ha mai escluso l’uso della forza, riservandosi “tutti i mezzi necessari” per contrastare l’indipendenza di Taiwan o interferenze esterne.

Per ora, Pechino sembra perseguire un obiettivo più politico che militare: logorare la fiducia interna di Taiwan, spaccare i suoi alleati, mettere in dubbio l’affidabilità degli Stati Uniti.

Perché allora gli Stati Uniti parlano di “minaccia imminente”?

Qui si apre la dimensione più complessa: quella strategico-politica. Gli Stati Uniti sono storicamente inclini ad usare la percezione della minaccia esterna come strumento di coesione interna e leva diplomatica globale. Ed è proprio questo che sembra essere in gioco.

L’allarme sull’attacco imminente a Taiwan ha diversi effetti utili per l’amministrazione Trump:

  • Rafforza la narrativa della “grande America minacciata” e la legittimità di un presidente che si presenta come unico difensore della civiltà occidentale contro le autocrazie.

  • Riattiva i canali di cooperazione con i partner strategici del Pacifico (Giappone, Corea del Sud, Australia, Filippine), alimentando il senso di urgenza e quindi giustificando nuove basi, esercitazioni congiunte e bilanci militari rafforzati.

  • Induce Taiwan a mantenere un forte legame con Washington, riducendo la possibilità di derive indipendentiste troppo radicali ma anche di aperture autonome verso la Cina.

  • Serve anche a deviare l’attenzione dai fronti interni più critici per l’amministrazione, tra cui la revoca di protezioni migratorie, le battaglie culturali contro le università e i media pubblici, o le cause civili legate agli affari personali del Presidente.

La costruzione del nemico e il rischio di escalation

Chi conosce la storia della politica americana sa che la costruzione del nemico è uno degli strumenti retorici e strategici più ricorrenti. Durante la guerra fredda, questa funzione fu svolta dall’URSS. Negli anni Duemila, dai regimi mediorientali. Oggi è la Cina, e Taiwan ne è il punto critico.

Il pericolo vero è che anche se la minaccia militare cinese non è reale nel breve termine, l’effetto delle dichiarazioni americane possa diventarlo. Questo meccanismo è noto nella teoria strategica come self-fulfilling prophecy – profezia che si autoavvera. Se si insiste nel dire che una guerra è alle porte, si costringono gli attori a comportarsi come se fosse vero. Taiwan si arma, la Cina reagisce, gli Stati Uniti rafforzano la presenza, e il ciclo si autoalimenta fino a trasformare quella che era inizialmente una narrazione politica in un’escalation concreta.

In questo senso, il pericolo maggiore non è l’invasione, ma l’escalation non pianificata: un errore di calcolo, uno scontro navale accidentale, un incidente aereo o una provocazione mal interpretata. Basta poco, in un contesto ipermilitarizzato e iper-mediatizzato, per trasformare la retorica in realtà. Va ricordato che la dottrina statunitense sull’ambiguità strategica nota in ambito NATO come strategic ambiguity – ovvero la scelta di non chiarire se e come interverrebbe in caso di aggressione – contribuisce ad alimentare l’incertezza e dunque la tensione.

Conclusione: tra deterrenza e teatro

La Cina, oggi, non sembra pronta a invadere Taiwan. Ma gli Stati Uniti sono pronti a presentare quella possibilità come imminente, per ragioni che hanno tanto a che fare con la deterrenza quanto con la politica interna.

Non è la prima volta che la Casa Bianca – quale che sia il presidente – costruisce una narrazione del pericolo per rafforzare la propria posizione. Il vero problema è che in un mondo interconnesso e instabile, anche le narrazioni diventano potenzialmente letali. Soprattutto quando vengono credute da chi ha il dito sul grilletto.

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ENGLISH VERSION

TAIWAN, CHINA AND THE UNITED STATES: RHETORIC OF WAR OR EXERCISE IN DETERRENCE?

 

An analysis of recurring communication patterns in U.S. foreign policy: the Taiwan case between perceived risk and strategic threat construction.

In recent days, statements from the United States – in particular from the Secretary of Defense – have brought back to the forefront the possibility of an imminent Chinese attack on Taiwan. A “real and potentially imminent threat” has been evoked. A phrase which, if taken literally, would imply that the world is on the brink of a conflict between superpowers. But is it really so?

Or are we instead facing a classic American strategic and rhetorical construction, useful for redefining fronts, strengthening alliances, and, why not, uniting the domestic front against an “external enemy”? The suspicion is legitimate, especially in light of America’s long history of war justifications – such as the case of the nonexistent weapons of mass destruction in Iraq, used in 2003 to justify military intervention.

Today the scenario is different but no less delicate. Donald Trump is under intense pressure: political, institutional, media-related, and international. His administration is polarizing, presidential decisions are often controversial, and the resilience of the American democratic system is periodically questioned, both at home and abroad.

Is China Preparing to Invade Taiwan?

Let us start with the military facts, to clearly address the central question: Is China really about to invade Taiwan?

As of today, the answer is no. The Chinese armed forces have intensified military exercises around the island: simulations of naval blockades, long-range attacks, and aerial incursions near Taiwan’s identification zone. All of this is real, documented, and consistent with a strategy of psychological and diplomatic pressure on Taipei.

But the specific signals that would precede a real invasion are absent: no mass naval mobilization, no extensive deployment of logistical forces, no systemic or coordinated cyberattacks. An amphibious operation against Taiwan – one of the most complex undertakings imaginable in the modern military landscape – would require weeks of visible logistical and military preparation, including prepositioning of ships, troops, and supplies, and would produce unmistakable traces, observable by any Western intelligence center.

What we are witnessing instead is a China that is applying pressure and sending signals, while at the same time assessing costs, risks, and reactions. Xi Jinping has repeatedly stated his desire to “reunify” Taiwan, preferably without firing a shot. However, he has never ruled out the use of force, reserving “all necessary means” to counter Taiwan’s independence or external interference.

For now, Beijing seems to be pursuing a goal more political than military: to erode Taiwan’s internal confidence, fracture its alliances, and cast doubt on the reliability of the United States.

Why, Then, Are the United States Speaking of an “Imminent Threat”?

Here begins the more complex dimension: the strategic-political one. The United States has historically been inclined to use the perception of an external threat as a tool for domestic cohesion and global diplomatic leverage. And this appears to be precisely what is at stake.

The alarm over an imminent attack on Taiwan has several strategic benefits for the Trump administration:

  • It reinforces the narrative of a “great America under threat” and the legitimacy of a president presenting himself as the sole defender of Western civilization against autocracies.

  • It reactivates channels of cooperation with key Pacific partners (Japan, South Korea, Australia, the Philippines), heightening the sense of urgency and thus justifying new bases, joint exercises, and increased military budgets.

  • It induces Taiwan to maintain a strong bond with Washington, reducing the risk of overly radical pro-independence movements or independent initiatives toward China.

  • It also serves to divert attention from the administration’s more critical domestic fronts, including the repeal of migration protections, cultural battles against universities and public media, and civil lawsuits linked to the President’s personal affairs.

The Construction of the Enemy and the Risk of Escalation

Anyone familiar with American politics knows that the construction of the enemy is one of its most recurring rhetorical and strategic tools. During the Cold War, this role was played by the USSR. In the 2000s, it was Middle Eastern regimes. Today it is China, and Taiwan is the flashpoint.

The real danger is that, even if the Chinese military threat is not imminent, the effect of American statements may render it so. This mechanism is known in strategic theory as a self-fulfilling prophecy. If we persist in saying that a war is imminent, actors are forced to behave as if it were true. Taiwan arms itself, China reacts, the United States strengthens its presence, and the cycle feeds itself until a political narrative – perhaps originally created for domestic purposes – turns into a concrete escalation.

In this sense, the greatest risk is not invasion, but unplanned escalation: a miscalculation, an accidental naval clash, an aerial incident, or a misunderstood provocation. It takes very little, in a hyper-militarized and hyper-mediatized environment, to turn rhetoric into reality. It should be recalled that the U.S. doctrine of strategic ambiguity – known in NATO circles as strategic ambiguity – that is, the deliberate decision not to clarify whether and how the U.S. would intervene in the event of aggression, contributes to uncertainty and thus fuels tension.

Conclusion: Between Deterrence and the Performance of Power

China, today, does not appear ready to invade Taiwan. But the United States is prepared to portray that possibility as imminent, for reasons linked as much to deterrence as to domestic politics.

It is not the first time that the White House – regardless of who occupies it – constructs a narrative of danger to bolster its position. The real problem is that in an interconnected and unstable world, even narratives can become potentially lethal. Especially when they are believed by those with their finger on the trigger.

 

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