di Salvatore Ceccarelli
Ho sempre pensato, e l’ho anche detto e scritto spesso, che i problemi del mondo, che dobbiamo fronteggiare, alcuni antichi e tuttora in parte irrisolti quali: povertà, fame, malnutrizione, malattie, altri del tutto nuovi: biodiversità sempre più ridotta, cambiamento climatico sono tutti in qualche modo riconducibili ai semi.
Ecco perché l’origine di questa somma intricata di problemi si può imputare allora al controllo del mercato da parte di poche corporazioni produttrici di semi, pesticidi, farmaci e cibo.
Scopro ora che il peccato originale è ancora più a monte, è ancora più grande ed è ancora più complesso, risalendo alla scoperta, relativamente recente, dei prodotti agricoli e del cibo come oggetto molto redditizio di speculazioni finanziarie. E’ così che attualmente le maggiori società di gestione patrimoniale detengono considerevoli pacchetti azionari delle corporazioni dei semi, dei pesticidi (spesso le stesse) e del cibo, determinandone le priorità (i dividendi degli azionisti piuttosto che la sicurezza alimentare e il benessere delle persone e del pianeta) e perfino le megafusioni cui abbiamo anche recentemente assistito.
Ma andiamo con ordine
Quanto segue è una libera traduzione delle parti salienti di “Risky Returns: The Implications of Financialization in the Food System” di Jennifer Clapp e S. Ryan Isakson della Faculty of Environment dell’Università di Wateloo in Canada e pubblicato sulla rivista Development and Change nel 2018. Alcuni dati vengono da “Bigger is Not Always Better: Drivers and Implications of the Recent Agribusiness Megamergers, pubblicato sempre da Jennifer Clapp nel 2017.
Ad un certo punto della lettura, qualcuno si potrebbe chiedere perche’ uno come me all’improvviso si interessi di finanza internazionale, ma confido che questa perplessità non duri a lungo!
Ogni tanto ho fatto, in grassetto, qualche considerazione personale.
L’ opportunità di questa libera traduzione è stata giustificata ancora di più da una frase verso la fine del lavoro quando gli autori dicono: “L’alto grado di complessità degli strumenti finanziari li ha resi opachi alla società civile e a quei policy makers che cercano di promuovere una riforma dell’agroalimentare.
Il cibo soddisfa altri appetiti
I legami tra cibo, agricoltura e finanza sono vecchi di secoli, ma è solo recentemente che la finanza ha trasformato tutta la catena alimentare, dalla fornitura di inputs, alla proprietà terriera, alle scelte colturali, al commercio delle materie prime (le “commodities”), alla trasformazione dei prodotti alimentari e alla loro vendita.
L’investimento finanziario nel settore agroalimentare ha tre aspetti: a) apre nuove possibilità per l’accumulo di capitale, b) da priorità ai dividendi degli azionisti piuttosto che ad altri valori, e c) permea di “valori finanziari” tutte le pratiche quotidiane di interventi sociali.
In particolare, l’investimento finanziario nel settore agroalimentare ha importanti conseguenze sulla sostenibilità ecologica e sociale del cibo e dell’agricoltura in quanto:
- contribuisce alla concentrazione di potere e di ricchezza esacerbando cosi le ineguaglianze già esistenti nei sistemi alimentari;
- aumenta la vulnerabilità economica ed ecologica del sistema agroalimentare minandone cosi la resilienza;
- si è evoluto in modo tale da impedire o “annacquare” le domande della collettività per un cambiamento, rendendo difficili i tentativi regolatori e politici per attenuarne gli effetti.
Prese insieme, queste tre conseguenze rappresentano un ostacolo alla capacità dei sistemi alimentari di assicurare i mezzi di sussistenza nel lungo periodo e hanno ricadute diverse: mentre le grandi industrie dell’agroalimentare sono quelle che più beneficiano di questa trasformazione aumentando il loro potere e la loro ricchezza, gli agricoltori, i consumatori e il pianeta pagano il prezzo più grande anche se non tutti nella stessa misura.
Un po’ di storia
Lo scambio di materie prime legate all’agricoltura è iniziato in Olanda, Giappone ed Inghilterra nel 16esimo e 17esimo secolo, e negli Stati Uniti nel 18esimo e 19esimo secolo. C’è stato sempre il sospetto che la speculazione su questi mercati facesse aumentare i prezzi e quindi ci fu un periodo di regole abbastanza rigide che però non è durato a lungo.
A cominciare dagli anni ’80 e sotto la pressione di grossi investitori finanziari come Goldman Sachs e la Deutsche Bank, i mercati delle materie prime sono stati, nel tempo, gradualmente de-regolati.
Questo ha aperto la porta a tutta una gamma di prodotti finanziari legati al cibo e all’agricoltura: banche ed altri istituzioni finanziarie, incluse le finanziarie di aziende come Cargill[1], hanno cominciato ad offrire prodotti finanziari legati alle materie prime per il cibo e l’agricoltura.
Questi prodotti finanziari sono diventati sempre più sofisticati tanto da attirare una gamma sempre più vasta di investitori come i fondi pensione, gli “hedge funds”, i fondi di dotazione Universitari i cui managers, pur non essendo esperti di agricoltura, usavano questi fondi per diversificare il loro portafoglio (noi facciamo la stessa cosa con i miscugli).
Dove siamo arrivati
Questi sviluppi hanno esteso il ruolo della finanza e hanno consentito ad un numero crescente di investitori di speculare sui prezzi del cibo e delle materie prime agricole al punto che tra il 2006 e il 2011 gli investimenti speculativi in agricoltura (cibo compreso) sono passati da 65 a 126 miliardi di dollari americani.
Il problema di fondo è che possedere prodotti finanziari legati alle materie prime e ai prodotti agricoli anziché le “reali materie prime e i reali prodotti agricoli” equivale ad un accaparramento “virtuale” che mina la possibilità del mercato di basare i prezzi sulle relazioni tra domanda ed offerta.
Come è facile immaginare, la finanza non ha risparmiato i terreni agricoli spesso approfittando di agricoltori in difficoltà economiche. Anche i fondi azionari sono diventati molto popolari investendo nelle maggiori industrie dell’agroalimentare da Monsanto a Syngenta, da Deere a Toro, a ADM, a Bunge, a Big Food, a PepsiCo, a Kellog, a Wendy’s, a Domino’s, a Kruger, a Sysco.
Oltre che a premere per una sempre maggiore concentrazione (vedi più sotto), questi fondi rafforzano il modello agricolo industriale, concentrando la maggior parte degli investimenti nel settore agricolo sulle alte tecnologie, sulle operazioni di scambio su larga scala, su alimenti trasformati e sulle grandi catene sia di fast food che di rivendita di generi alimentari (i supermercati, gli ipermercati, i megastores dove tutto costa meno).
Sempre più spesso, gli azionisti delle grandi corporazioni dell’agroalimentare sono società di gestione patrimoniale che gestiscono fondi per investitori i cui profitti provengono dall’aumento in valore dei titoli azionari. Per soddisfare la domanda di questi potenti azionisti, i managers delle grandi corporazioni dell’agroalimentare hanno adottato strategie che includono sia attività finanziarie che fusioni e acquisizioni per ottenere rapidi, anche se a volta effimeri, aumenti di profitto. Ma tutto ciò va ovviamente a scapito di investimenti in nuovi prodotti, in sicurezza sul lavoro, in pratiche ambientali sostenibili e ha fatto sì che le stesse corporazioni dell’agroalimentare si siano date alle speculazioni finanziarie. Cosi per esempio, le aziende del settore alimentare investono su quelle materie prime che sono importanti ingredienti per i loro stessi prodotti allo scopo di ridurre i costi e aumentare i profitti. Nel 2011 la Kraft è stata accusata negli Stati Uniti di manipolare i prezzi a proprio vantaggio comprando un enorme quantità di “futures” sul frumento, cosa che fece scendere il prezzo del grano presso la loro azienda nell’Ohio e contemporaneamente salire il valore dei “futures” (in altre parole, ci hanno guadagnato due volte).
Uno dei modi per i ridurre i costi, e cosi pagare maggiori dividendi agli azionisti, è quello delle fusioni e delle acquisizioni: è cosi che si spiegano in epoca relativamente recente le fusioni tra Monsanto e Bayer, tra Syngenta e ChemChina e quella tra Dow e Dupont, che hanno fatto seguito alla debolezza dei prezzi delle materie prime agricole nel 2014 e 2015. Di fronte alla diminuzione della domanda, e alla conseguente perdita di valore delle azioni, le fusioni hanno fatto aumentare le quote di mercato e contemporaneamente diminuito i costi con l’eliminazione di duplicazioni nella ricerca e nello sviluppo.
Non è poi la performance di una singola azienda ad essere importante, ma quella di un intero settore. Per esempio alcune grosse società finanziarie quali Black Rock, Capital Group, Fidelity, The Vanguard Group, State Street Global Advisor e Norges Bank Investment Management, possiedono una notevole quantità di azioni delle sei maggiori multinazionali dei semi e dei pesticidi come si vede nella tabella seguente[2].
Queste percentuali non sono aggiornate
Quindi, queste società finanziarie hanno interesse che tutte queste multinazionali vadano bene in modo che i loro clienti possano ricavare il massimo ritorno dal loro investimento. Il dare la priorità agli investitori ha come conseguenze sia costi sociali che ambientali. Pertanto, il lavoro nel settore agroalimentare è diventato meno sicuro, e l’approvvigionamento e la trasformazione sono diventati sempre più globalizzati e fatti in paesi dove i salari sono più bassi e gli standard ambientali meno rigorosi.
L’infiltrazione della finanza nell’agroalimentare ha avuto una molteplicità di altri effetti. Per esempio, ha portato alla perdita di autonomia da parte di agricoltori e consumatori, ha reso il sistema agroalimentare meno resiliente, ha incoraggiato la monocoltura a scapito della biodiversità, aumentando così la vulnerabilità nei confronti di malattie, insetti e cambiamenti climatici, è una delle cause dell’accaparramento delle terre (il land grabbing), ed è alla base dell’uso degli organismi geneticamente modificati e dei prodotti chimici ad essi associati.
In conclusione, mentre in passato (ma da parte di molti ancora oggi) l’agricoltura è stata apprezzata in quanto capace di proteggere e conservare la biodiversità, assicurare sia i mezzi di sussistenza che il cibo, ora e sempre di più, è apprezzata in base al profitto che genera per coloro che su di essa investono.
L’articolo si conclude, in un modo per me un po’ deludente, sostenendo che “sono possibili soluzioni finanziarie alternative capaci di mitigare gli effetti descritti sopra e che è necessario sostenere l’agricoltura sostenibile e introdurre regole più rigide sia a livello nazionale che internazionale”
A me sembra che serva molto (ma molto) di più………………….. voi che ne dite?
Stavo per metterlo sul mio blog quando a distanza di pochi giorni sono morti 16 braccianti impiegati nella raccolta di pomodori. Carlo Petrini oggi scrive su Repubblica:
Le aste a doppio ribasso sono una pratica di acquisto diffusa tra gli operatori della grande distribuzione organizzata, che mette in difficoltà, con un effetto domino, l’intera filiera agroalimentare. Attraverso due aste consecutive, i fornitori sono forzati a fissare prezzi sottocosto per i loro prodotti: un meccanismo che poi obbliga questi stessi fornitori a rifarsi sui produttori, e quest’ultimi sui lavoratori salariati, in un circolo vizioso che puzza dalla testa.
I conti tornano perfettamente con quanto sopra.
[1] Cargill è una multinazionale statunitense, attiva principalmente nel settore alimentare con 150.000 dipendenti. Di proprietà degli eredi Cargill e MacMillian e non quotata in borsa, è considerata l’azienda a controllo familiare più grande del mondo con un fatturato di 114,7 miliardi USD
[2] Clapp J. 2017. Bigger is Not Always Better: The Drivers and Implications of the Recent Agribusiness Megamergers. March. Waterloo ON: Global Food Politics Group, University of Waterloo. https://uwaterloo.ca/global-food-politics-
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