Né Biden né Trump porranno fine all’occupazione israeliana della Palestina

L'impegno incontrovertibile

di Gideon Levy – taduzione Beniamino Rocchetto

L’occupazione israeliana della Cisgiordania è indifferente al fatto se sia Donald Trump o Joe Biden a diventare presidente degli Stati Uniti; non fa differenza. L’occupazione ha ottenuto un’altra grande vittoria martedì, molto prima che i seggi elettorali chiudessero.

È incredibile che due persone totalmente diverse come Trump e Biden condividano lo stesso impegno incontrovertibile: il sostegno americano all’occupazione israeliana in Palestina. Non sembra esserci una questione su cui i due sono più d’accordo, quindi l’identità del vincitore è irrilevante per l’occupazione.

Trump è un amico dei coloni e ha riconosciuto le alture del Golan come parte di Israele, ma anche Biden non farà nulla per portare a un ritiro o addirittura congelare il progetto d’insediamento. E Trump si fa beffe dei deboli, gli ultimi, i palestinesi. I diritti umani sono l’ultima questione che lo interessa, il diritto internazionale non è mai arrivato sulla sua scrivania e probabilmente non ha mai sentito parlare delle sofferenze dei palestinesi, facendo di lui l’opposto del suo rivale.

Biden sa una o due cose sui diritti umani, sui deboli, i diseredati e gli oppressi. L’apartheid con lui trema e le sofferenze dei palestinesi contano, ispirato da Barack Obama, che ha paragonato queste sofferenze alle passate sofferenze degli Afroamericani.

Con Biden, non vedremo figure prestigiose del calibro dell’ambasciatore americano amico dei coloni David Friedman o Jared Kushner. Saranno sostituiti da dei Friedman più seri e moderati, ma Biden non farà nulla per portare giustizia e redenzione ai palestinesi, applicando il diritto internazionale, se non solo a parole. Dopo tutto, questo è ciò che ha fatto il grande Obama.

Biden creerà un contesto diverso, meno umiliante per i palestinesi, con più autodeterminazione. Quando lancerà il suo piano di pace, forse il centesimo piano americano incompiuto, non parteciperanno solo i rabbini ortodossi e i pastori evangelici, come nel “piano di pace” di Trump. Ci saranno anche i palestinesi.

Ma il seguito non sarà diverso: un servizio fotografico, un inviato speciale, in una bella giornata, persino una conferenza di pace, senza nessun cambiamento. I palestinesi continueranno a sanguinare ammanettati sul ciglio della strada, sotto il giogo dell’occupazione militare israeliana che li opprime, mentre l’Oman si aggrega al cosiddetto processo di pace.

Di tutte le questioni, una gode apparentemente di un ampio consenso internazionale, da blocco a blocco e da continente a continente. Nessuna questione accomuna i paesi più dell’opposizione all’occupazione e del rifiuto di riconoscerla. Questo è l’unica questione in cui non c’è differenza tra i presidenti degli Stati Uniti; nessun presidente ha considerato di porre fine a tutto ciò. Forse non è ancora nato.

Nessuna spiegazione ragionevole si adatta a questo. Tutte le statistiche che tracciano interessi diversi, americani o internazionali, non sono abbastanza convincenti per spiegare come, in una questione così chiara e ovvia; l’illegalità e l’ingiustizia dell’occupazione, la corsa verso la creazione di uno stato di apartheid e la sofferenza del popolo palestinese, milioni dei quali sono le uniche persone che non sono cittadini di nessuno stato, non ci sia differenza tra le amministrazioni statunitensi. Dieci presidenti, 53 anni: l’occupazione è al culmine del suo potere e le possibilità che finisca sono più scarse che mai, sia con Biden che con Trump.

La superpotenza che finanzia, equipaggia, sostiene e protegge la sua prediletta, Israele, sta coprendo tutti i suoi crimini e non intende usare il suo potere per influenzare Israele per porre fine all’occupazione. Non ha mai avuto intenzione di farlo. L’America non è obbligata a farlo. Israele porta il peso maggiore della colpa e della responsabilità.

Ma quando una superpotenza continua a sostenere automaticamente e incondizionatamente il paese responsabile di tutto questo, amministrazione dopo amministrazione, senza un presidente che si ponga la domanda: perché e fino a quando, anche questo è complice e criminale. La destra israeliana può smettere di preoccuparsi. Una questione così scottante non si risolverà sulla scrivania dell’ufficio ovale, indipendentemente da chi ci sia seduto dietro.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, “La punizione di Gaza”, è stato appena pubblicato da Verso.

 

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