Myanmar: fine di una democrazia simulata

Ritornano al potere i generali. Non erano mai rientrati nelle caserme

di Alessandro Scassellati

Il ritorno al potere dei generali che non erano mai rientrati nelle caserme

Il 1º febbraio, poche ore prima dell’insediamento del nuovo Parlamento, il Tatmadaw (il termine locale per delle forze armate composte da circa 500 mila uomini) agli ordini del generale Min Aung Hlaing ha realizzato un colpo di stato, arrestato Aung San Suu Kyi, i componenti non militari del suo governo e i suoi più stretti collaboratori (compreso Sean Turnell, un consigliere economico australiano della Macquarie University di Sidney), e dichiarato lo stato di emergenza nazionale per un anno. Centinaia di membri del Parlamento sono stati confinati all’interno delle loro abitazioni nella capitale Naypyidaw (città costruita in segreto dal Tatmadaw nel cuore della giungla negli anni della dittatura militare). La giunta militare (State Administrative Council), guidata dal generale Min Aung Hlaing, ha mandato blindati e carri armati a pattugliare strade ed aeroporti, ha sostituito ministri, viceministri e governatori, e deciso il coprifuoco dalle 8 di sera alle 6 del mattino.

L’accusa ufficale contro Aung San Suu Kyi è ridicola: possesso di sei radio walkie-talkie importate illegalmente e usate senza autorizzazione dalla sua scorta (accusa che può comportare fino a due anni di reclusione). Il presidente del Paese (e membro del partito di Aung San Suu Kyi), Win Myint, invece è stato accusato di aver violato i protocolli sul coronavirus per aver incontrato una folla di sostenitori durante la campagna elettorale.

Alle elezioni politiche nazionali dell’8 novembre il partito di Aung San Suu Kyi, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), ha vinto l’80% dei seggi – 396 su 476 -, mentre il partito sostenuto dai militari (Union Solidarity and Development Party – USDP), con loro grande sorpresa e rabbia, è riuscito a vincerne solo 33. Da allora, Aung San Suu Kyi aveva smesso di incontrare i militari che hanno denunciato (senza fornire prove) una diffusa frode elettorale, anche se gli osservatori internazionali hanno certificato le elezioni come pienamente regolari. Il vero problema è che il risultato ha espresso fin troppo bene il punto di vista dell’opinione pubblica e questo ha portato alla fine dell’esperimento decennale di condivisione del potere tra militari e civili. Presumibilmente, i generali si sono resi conto che il tentativo di applicare il “modello Thailandia” era fallito. Non sarebbe stato possibile riciclare il potere militare nell’autorità politica tramite un partito politico di copertura (USDP), come invece ha fatto finora l’esercito nella vicina Thailandia.

Inoltre, secondo molti analisti, un altro fattore del colpo di stato potrebbe risiedere nel fatto che il generale Min Aung Hlaing, comandante delle forze armate dal 2011 e ora leader di fatto del Paese, avrebbe dovuto ritirarsi a luglio, al raggiungimento dell’età di pensionamento obbligatorio. Ma, il generale che ha supervisionato la pulizia etnica dei Rohingya (e per questo è sotto sanzioni da parte sia degli Stati Uniti sia del Regno Unito) non ha mostrato alcun desiderio di abbandonare un potere che ha permesso a lui e alla sua famiglia di accumulare notevoli ricchezze. L’eventuale autorizzazione ad estendere il suo mandato avrebbe dovuto essere concessa da Aung San Suu Kyi. Pertanto, alcuni osservatori hanno ipotizzato che il colpo di stato sia stato avviato dal generale Min Aung Hlaing più come mezzo per proteggere il proprio potere personale e la propria posizione, piuttosto che perché i militari avessero perso la pazienza di non essere da soli al comando o a causa di reali presunte “preoccupazioni” riguardo a brogli alle elezioni di novembre.

Il gigante giapponese delle bevande Kirin Holdings ha deciso di abbandonare la sua partnership stabilita nel 2015 con due birrifici del Myanmar in parte di proprietà di Myanmar Economic Holdings (MEHL), società controllata dal generale Min Aung Hlaing e dal Tatmadaw (secondo un’indagine dell’ONU del 2019) che, insieme ad un altro conglomerato (Myanmar Economic Corporation) sempre controllato dai generali, ha esteso la sua influenza a quasi tutti i settori economici del Paese (dalla birra al tabacco, dallo sfruttamento minerario alla manifattura tessile, dal settore bancario al turismo). Per anni Kirin è stato sollecitato a tagliare i legami con le sue operazioni commerciali in Myanmar. Le organizzazioni per i diritti umani hanno sostenuto che la sua proprietà parziale dei due birrifici ha di fatto reso Kirin complice dei crimini di guerra commessi dai militari. Anche l’importante uomo d’affari di Singapore Lim Kaling ha manifestato l’intenzione di uscire dal suo investimento in una società di tabacco (Virginia Tobacco Company) controllata dal MEHL.

Le partnership commerciali con multinazionali euro-nippo-sino-americane e uomini di affari di Singapore, Hong Kong, Cina continentale, India e Corea del Sud non hanno fornito solo valuta estera tanto necessaria per un esercito e un Paese isolato – soggetto a embarghi globali sulle armi -, ma anche una cruciale fonte di legittimità internazionale. Un rapporto di una missione conoscitiva dell’ONU nel 2018 ha affermato che “qualsiasi impegno in qualsiasi forma” con l’esercito del Myanmar era “indifendibile“.

Dalla disobbedienza civile al movimento di protesta di massa per la democrazia?

Fin dall’annuncio del colpo di stato è iniziata una coraggiosa campagna di disobbedienza civile e di protesta. La popolazione è triste, frustrata e furiosa. La giunta militare ha rapidamente bloccato Facebook (utilizzato da metà dei 54 milioni di abitanti del Myanmar) e le altre reti social in modo da bloccare la mobilitazione online degli attivisti pro democrazia. Gli abitanti di Yangon (la ex capitale Rangoon, il centro industriale e commerciale del Paese con oltre 5 milioni di abitanti) e di altre città hanno picchiato su pentole e padelle e hanno suonato il clacson durante le notti per protestare contro il colpo di stato e le immagini di queste proteste sono circolate ampiamente su Facebook. Il social network è stato utilizzato anche per condividere le immagini di una campagna di disobbedienza da parte del personale sanitario degli ospedali governativi di tutto il Paese, che hanno accusato l’esercito di mettere i propri interessi al di sopra di un’epidemia di coronavirus che ha ucciso quasi 3.200 persone e ne ha contagiate oltre 141 mila, i numeri più alti del Sud-Est Asiatico. I medici hanno, però, continuato a curare i pazienti nelle loro case e presso cliniche no-profit.

La più grande federazione sindacale del lavoro del Paese, gli insegnanti e l’organizzazione degli studenti hanno esortato le persone a non collaborare con il governo militare e un gruppo Facebook intitolato “movimento di disobbedienza civile” ha ottenuto 180 mila like in poche ore “Attualmente le persone che stanno turbando la stabilità del paese … stanno diffondendo notizie false e disinformazione e causando incomprensioni tra le persone utilizzando Facebook“, ha fatto sapere il Ministero delle Comunicazioni in un comunicato. Il principale operatore di rete mobile del Myanmar, la norvegese Telenor Asa, pur prendendo le distanze, ha dichiarato di non avere altra scelta che conformarsi alla direttiva.

In molti si sono precipitati a scaricare l’app di messaggistica offline Bridgefy, che è stata utilizzata durante le proteste a favore della democrazia ad Hong Kong nel 2020, dopo che i servizi di telefonia e Internet sono stati interrotti. L’azienda ha detto che la sua app è stata scaricata più di 1 milione di volte in Myanmar in una settimana.

La prima protesta di strada contro il colpo di stato ha avuto luogo nella città di Mandalay (capitale culturale del paese e sede della monarchia precoloniale del Myanmar), dove un piccolo gruppo ha cantato: “I nostri leader arrestati, rilasciateli ora, rilasciateli ora“. Il gruppo è stato rapidamente disperso dalla polizia antisommossa e quattro persone sono state arrestate. Piccole manifestazioni simboliche e “volanti” (per evitare gli arresti da parte della polizia) di protesta sono avvenute in diverse città.

La prima manifestazione di massa contro il colpo di stato è arrivata cinque giorni dopo a Yangon. “Dittatore militare, fallisci, fallisci; Democrazia, vinci, vinci“, hanno gridato i manifestanti, invitando i militari a liberare Aung San Suu Kyi. Decine di migliaia di persone hanno manifestato anche il giorno successivo in diverse città. In centianaia di migliaia hanno marciato lunedì (8 febbraio) nelle città di tutto il Myanmar – dalla città himalayana di Putao alle città sulle rive del Mare delle Andamane -, il terzo giorno di manifestazioni di piazza contro un colpo di stato. La maggior parte delle manifestazioni sono state pacifiche, ma nella capitale Naypyidaw la polizia ha usato cannoni ad acqua sulle migliaia di manifestanti.

Ai tre giorni di grandi proteste, la giunta militare ha reagito imponendo il coprifuoco e vietando raduni di più di quattro persone in buona parte delle circoscrizioni delle due città più grandi del Paese, Yangon e Mandalay. E’ stato vietato alle persone di lasciare le loro case tra le 8 di sera e le 4 del mattino (di fatto, imponendo la legge marziale). Ma, decine di migliaia di oppositori hanno sfidato i divieti e si sono radunati pacificamente anche per il quarto giorno, anche se nella capitale Naypyidaw la polizia ha usato cannoni ad acqua e idranti, ha sparato lacrimogeni, proiettili di gomma e proiettili veri contro i manifestanti (diverse persone sono state gravemente ferite da proeittili veri e una giovane donna è morta), mentre oltre due dozzine di persone sono state arrestate a Mandalay. La polizia ha anche fatto irruzione e distrutto il quartier generale del partito del NLD a Yangon durante le ore del coprifuoco imposto dai militari. Inoltre, i militari hanno messo sotto controllo una clinica che ha curato i manifestanti feriti nelle manifestazioni a Naypyitaw.

Alla violenza della polizia i manifestanti hanno cominciato a rispondere lanciando sassi e mattoni. Inoltre, hanno alzato anche il tiro delle loro richieste per andare oltre la revoca del colpo di stato e la liberazione dei detenuti politici, arrivando a chedere l’abolizione della costituzione del 2008 redatta sotto la supervisione militare e per un sistema federale in un Paese etnicamente molto diversificato.

Il regime militare ha deciso di cominciare ad utilizzare le maniere forti, utilizzando una ben maggiore brutale violenza repressiva contro coloro che manifestano pacificamente per la democrazia nelle strade, come già avvenuto nel 1988 e 2007(durante la cosiddetta “rivoluzione dello zafferano” guidata dai monaci buddisti). “Occorre agire secondo la legge con misure efficaci contro i reati che disturbano, impediscono e distruggono la stabilità dello Stato, la sicurezza pubblica e la legge“, ha dichiarato la TV di Stato, avvertendo che i militari considerano illegale qualsiasi opposizione alla giunta e sono pronti ad arrestare tutti coloro che trasgrediranno le nuove direttive sull’ordine pubblico. A Naypyidaw e Yangon, a fianco alla polizia, si sono cominciati a vedere soldati armati e i loro mezzi blindati.

Le reazioni internazionali

Il colpo di mano dei militari ha provocato una diffusa condanna internazionale, con il neopresidente americano, Joe Biden, che ha minacciato sanzioni e tagli agli aiuti economici, e ha chiesto agli altri governi di premere affinché i militari rilascino i detenuti, rinuncino al potere, ripristino un governo democraticamente eletto, revochino tutte le restrizioni alle telecomunicazioni e si astengano dalla violenza. La Nuova Zelanda ha dichiarato di sospendere tutti i contatti politici e militari di alto livello con il Myanmar, e che assicurerà che gli aiuti non giovino ai militari e imporrà un divieto di viaggio ai suoi leader. Anche Papa Francesco si è schierato con chiarezza contro i leader militari, esprimendo la sua “solidarietà alla popolazione” e chiedendo ai leader di servire il bene comune e cercare l’armonia “democratica“.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha affermato che il colpo di stato, che è arrivato un decennio dopo che il Myanmar ha iniziato la sua transizione dalla dittatura militare verso un sistema democratico rappresentativo, rappresenta “un grave colpo alle riforme democratiche“. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si è riunito per discutere la questione, ma Cina e Russia (con l’aggiunta anche di India e Vietnam), entrambi con poteri di veto, hanno protetto il Myanmar da conseguenze significative, bloccando un tentativo guidato dai britannici di arrivare ad una dichiarazione di condanna del colpo di stato, anche se nella dichiarazione congiunta il Consiglio di Sicurezza ha chiesto la liberazione di Aung San Suu Kyi e di altri detenuti. Cina e Russia avevano minato anche i tentativi di esercitare pressioni significative sul Myanmar per le atrocità commesse contro i Rohingya nel 2016-17.

Alcuni analisti internazionali ritengono che dietro al colpo di stato ci sia la Cina. Questo sembra improbabile, perché il regime, inclusa Aung San Suu Kyi, aveva chiarito di essere in sintonia con la Cina. Un anno fa, Xi Jinping ha incontrato Aung San Suu Kyi a Naypyidaw per la settima volta dal 2015 e ha firmato 33 accordi relativi a infrastrutture, commercio e investimenti produttivi. Il Myanmar partecipa pienamente all’iniziativa cinese Belt and Road (BRI). Il 12 gennaio il governo di Aung San Suu Kyi ha incontrato il ministro degli esteri cinese Wang Yi (incontrato anche dal generale Min Aung Hlaing), il quale aveva promesso sia il sostegno della Cina al regime sulla questione dei Rohingya sia 300 mila dosi di vaccino contro il coronavirus. In cambio il presidente Win Myint aveva promesso che il Myanmar avrebbe continuato a sostenere la posizione della Cina sulle questioni relative a Taiwan, Tibet e Xinjiang.

Gli enormi investimenti cinesi in Myanmar richiedono stabilità, non un ritorno all’agitazione per la democrazia pre-2011 e all’eventuale riattivazione dei conflitti etnici armati nel Paese. D’altra parte, negli ultimi anni la Cina ha sempre esercitato una certa influenza moderatrice sui gruppi etnici – Shan (10% della popolazione), Kachin (1,5%), Wa, Han cinesi (3%) – che vivono nelle regioni vicine al confine cinese.

Se i Paesi occidentali torneranno ad imporre sanzioni punitive contro il Myanmar, la Cina avrà molto da guadagnare, perché queste renderebbero i generali non solo più odiati in patria e ostracizzati all’estero, ma anche più che mai dipendenti dalla Cina. In ogni caso, gli aiuti degli Stati Uniti al Myanmar sono stati pari a solo 180 milioni di dollari nell’anno fiscale 2020 (circa la metà di questi aiuti sono stati umanitari o di assistenza sanitaria), per cui un taglio a questi aiuti e l’imposizione di nuove sanzioni non influenzerà certo il comportamento dei generali.

Inoltre, c’è da considerare il ruolo della Russia. La lotta per l’influenza in Myanmar ha una dimensione geopolitica e dal 2015, a seguito della firma di un accordo di cooperazione militare, la presenza russa è aumentata e, soprattutto, coincide con la crescente presenza russa nell’Oceano Indiano. La Russia è diventata uno dei principali partner militari del Myanmar e gestisce un centro di assistenza in Myanmar. In gennaio, il viceministro della Difesa russo Alexander Fomin ha detto ai media che il Myanmar svolge “un ruolo chiave nel mantenimento della pace e della sicurezza nella regione“. È del tutto concepibile che la Russia, che ha una grande esperienza nel contrastare le rivoluzioni democratiche, condivida l’intelligence con l’esercito del Myanmar. Attualmente, oltre seicento ufficiali militari del Myanmar stanno studiando nelle accademie militari russe. Il capo militare del Myanmar Min Aung Hlaing ha viaggiato in Russia sei volte negli ultimi anni, più che in qualsiasi altro Paese.

Durante la visita del ministro della Difesa Sergei Shoigu a Naypyidaw in gennaio, i media russi hanno citato il generale Hlaing che ha detto: “Proprio come un amico fedele, la Russia ha sempre sostenuto il Myanmar nei momenti difficili, soprattutto negli ultimi quattro anni“. È stato firmato un accordo per la fornitura di un lotto di sistemi missilistici per la difesa aerea e un lotto di artiglieria Pantsir-S1. L’agenzia di informazione Tass ha riferito che “il comando delle forze armate del Myanmar ha mostrato interesse per altri sistemi d’arma avanzati di fabbricazione russa“. Secondo quanto riferito, Shoigu ha espresso interesse a stabilire un accordo che consenta la sosta di navi da guerra russe nei porti del Myanmar.

Considerando tutto ciò, è possibile aspettarsi che Cina e Russia (sempre più alleate tra loro sul piano politico, economico e militare) forniscano una protezione al Myanmar per scongiurare la pressione diplomatica e la penetrazione economica occidentale, come sta accadendo in Asia centrale. La Russia condivide la percezione cinese del QUAD (il Quadrilateral Security Dialogue che fa leva su USA, Giappone, Australia e India, e che potrebbe diventare una sorta di NATO dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Pacifico) come fattore destabilizzante nella sicurezza nella regione.

La “strada stretta” di Aung San Suu Kyi

Dalla sua elezione a leader de facto del Myanmar nel 2015 (dopo una massiccia vittoria del NLD alle elezioni: 255 seggi su 285 disponibili), la posizione di Aung San Suu Kyi è sempre stata precaria. Nonostante la celebrazione internazionale della transizione del Myanmar alla democrazia dopo mezzo secolo di governo militare (dal 1962), in realtà il potere dei militari era solo apparentemente diminuito. Il Paese ha vissuto sotto la costante minaccia di un colpo di stato.

Negli ultimi cinque anni, Aung San Suu Kyi ha governato il Myanmar sulla base di una costituzione antidemocratica (come suggerisce l’uso dell’etichetta “democrazia disciplinata“), redatta dagli stessi militari e fatta approvare con un referendum fittizio nel 2008. Una costituzione che ha garantito il potere ai militari in perpetuo perché consente loro di avere il pieno controllo su tre ministeri chiave – quelli della Difesa, degli Affari Interni e del Controllo delle Frontiere; di nominare il 25% dei parlamentari statali e nazionali; di dichiarare lo stato di emergenza quando essi decidono che vi sia il pericolo che si possa “disintegrare l’Unione o disintegrare la solidarietà nazionale“; di preservare i loro interessi dal momento che tutti gli emendamenti costituzionali devono raccogliere il sostegno di almeno il 75% dei deputati (praticamente impossibile, dato il 25% di seggi assegnati all’esercito) e poi essere approvati da più della metà degli aventi diritto al voto in un referendum.

Inoltre, la costituzione assegna al Tatmadaw il potere totale sui propri affari (compresa la gestione di conglomerati economici), così come l’immunità totale contro qualsiasi procedimento giudiziario per i crimini regolarmente commessi nelle diverse guerre contro gruppi armati etnici nella periferia del Paese. Stabilisce anche che i poteri di governo della leader democratica eletta sono limitati. Infatti, è anche una costituzione che ha impedito ad Aung San Suu Kyi di governare come presidente, a causa di una clausola – rivolta specificamente a lei – che non permette a nessuno con parenti stranieri di ricoprire cariche presidenziali (i suoi figli hanno cittadinanza britannica e il suo defunto marito, Micheal Aris, era inglese). Nel 2016, le era stato dato il titolo di “consigliere di Stato” (e aveva tenuto per sé il ministero degli Esteri), uno status istituzionale debole che aveva lo scopo di ricordarle costantemente che non era lei ad esercitare l’effettivo potere nel Paese.

Al tempo stesso, Aung San Suu Kyi e il suo partito hanno fatto poco o nulla per mettere in discussione non solo il potere dei militari, ma anche per innescare un reale cambiamento del Paese sul piano sociale, giuridico e politico. In Parlamento, il NLD ha lasciato intatte le leggi più oppressive approvate durante la dittatura militare, nonostante avesse la maggioranza, e il governo le ha usate a profusione per incarcerare giornalisti e attivisti critici sia del governo sia dei militari.

Le responsabilità della comunità internazionale

La comunità internazionale – in particolare Banca Mondiale, Unione Europea e USA – ha una parte di responsabilità per gli eventi che hanno portato al colpo di stato. All’inizio del 2012, la Banca Mondiale ha cominciato ad impegnarsi nuovamente con il Myanmar, prestando fondi ad agenzie governative e fornendo consulenza tecnica sulla “gestione del debito” e sulla legge sugli investimenti esteri. Nel 2013, spinta dal primo ministro britannico David Cameron e accecata dalla promessa di un “progresso politico” e dalla liberazione di Aung San Suu Kyi dagli arresti domiciliari, l’UE si è affrettata a revocare decenni di debilitanti sanzioni economiche contro il Myanmar, senza ottenere in cambio significative concessioni dai militari e nessuna vincolante garanzia sulla riscrittura della costituzione del 2008. Poi, nel novembre 2014 Barack Obama è stato il primo presidente americano a visitare il Paese (un segno di apprezzamento per le “riforme”) e nel 2016 gli Stati Uniti si sono adeguati, perché l’amministrazione Obama desiderava avere un Myanmar democratico al centro della sua politica del “pivot verso l’Asia“.

Le critiche di attivisti e organizzazioni per i diritti umani che affermavano che questa apertura di credito verso i militari fosse “prematura e deplorevole” sono state ignorate. Venuta a mancare la pressione sulle forze armate dopo che l’UE ha revocato le sanzioni e gli Stati Uniti si sono preparati a fare lo stesso, Aung San Suu Kyi, che nel 2011 aveva detto che non avrebbe mai governato il Myanmar con la costituzione militare del 2008, ha pensato di non avere altra scelta che andare al governo. Con il 25% dei seggi parlamentari designati dai militari, era evidente che il governo di Aung San Suu Kyi non avrebbe mai avuto il 75% dei voti necessari per modificare la costituzione. Avrebbe dovuto accettare una “democrazia simulata”, piuttosto che spingere con decisione il Paese verso la conquista di una democrazia sostanziale.

La parabola di Aung San Suu Kyi: da icona della pace a difensore del genocidio

Il rapporto tra i militari e Aung San Suu Kyi non è stato quindi mai facile e lineare. Figlia di Aung San – eroe nazionale che più di tutti si oppose all’occupazione britannica tra il 1938 e il 1943 e padre della nazione (fu lui, in quanto leader dell’etnia Bamar, a negoziare l’accordo di Panglong nel 1947 con i leader degli altri gruppi etnici che ha garantito l’indipendenza del Myanmar come Stato unificato), generale, fondatore del Tatmadaw (ma anche dei partiti comunista e socialista birmani) e primo ministro della Colonia Reale della Birmania (assassinato sei mesi prima dell’indipendenza del 1948) -, per Aung San Suu Kyi (nata nel 1945, con studi ad Oxford) il rapporto con i militari è stato un matrimonio di necessità e una sorta di “patto faustiano”. Collaborando con i militari e chiudendo più di un occhio sulle loro atrocità in materia di diritti umani, Aung San Suu Kyi ha potuto mantenere l’incarico che aveva aspettato di ricoprire per decenni, con 15 anni (tra il 1989 e il 2010) passati agli arresti domiciliari, e rimanere la maggiore speranza di transizione democratica per il Myanmar, per quanto fosse fragile e poco entusuasmante.

Per i militari, i cui membri erano consapevoli che non avrebbero mai vinto delle elezioni democratiche a causa della loro impopolarità, Aung San Suu Kyi al potere ha significato la possibilità di presentare una figura presentabile davanti alla comunità internazionale per ottenere la revoca delle sanzioni e far arrivare un flusso di aiuti e investimenti in Myanmar. Il tutto mentre il loro potere de facto è rimasto intatto.

In sostanza, i militari hanno avallato l’apparente transizione democratica per rafforzare il loro potere. Il loro budget è aumentato fino a 100 milioni di dollari all’anno e sono aumentati i loro interessi commerciali in hotel, bevande, reti di telefonia mobile, progetti minerari e infrastrutturali, oltre al tradizionale business legato alla produzione e al traffico di oppio (va ricordato che il Myanmar, con Laos e Thailandia, fa parte del cosiddetto “Triangolo d’oro”, la seconda regione asiatica nella produzione mondiale di oppio dopo Afghanistan, Pakistan e, in parte Nepal e India, che costituscono la cosiddetta “Mezzaluna d’oro”). Hanno continuato le loro operazioni militari senza freni contro le minoranze etniche in tutto il Paese, mentre l’impegno di Aung San Suu Kyi di supervisionare un processo di pace per porre fine a questi brutali conflitti di lunga durata non ha portato ad alcun risultato significativo. Una settimana prima del colpo di stato il Fondo Monetario Internazionale ha inviato 350 milioni di dollari al governo del Myanmar, parte di un pacchetto di aiuti di emergenza senza vincoli per aiutare il Paese a combattere la pandemia da coronavirus.

In effetti, Aung San Suu Kyi, sebbene sia ancora ampiamente venerata e amata in Myanmar, ha largamente compromesso la sua reputazione internazionale come autorità morale e icona di pace. Nella comunità internazionale ormai viene vista come un premio Nobel per la Pace (1991) che ha professato di avere come riferimenti culturali Martin Luther King e Mahatma Gandhi, ma che davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha personalmente difeso la campagna genocida contro la minoranza musulmana Rohingya nel dicembre 2019, sostenendo che le operazioni militari erano una risposta legittima contro il terrorismo e difendendo la totale impunità concessa ai militari per ogni possibile eccesso commesso nel corso di una campagna che non è stata eseguita in base ai suoi ordini, ma è pur sempre avvenuta sotto i suoi occhi. La sua testimonianza davanti alla Corte ha segnato il punto in cui è passata definitivamente da icona dei diritti umani a complice disprezzata di un genocidio agli occhi di molti nel mondo, ma ha aumentato la sua popolarità in patria, dove i Rohingya hanno pochi amici, e il suo intervento è stato falsamente presentato dalla propaganda ufficiale come una eroica difesa della nazione nel suo insieme, piuttosto che dello Stato.

Inoltre, lo stile di governo di Aung San Suu Kyi non si è sempre dimostrato molto diverso da quello dei militari. Durante il suo governo c’è stata una repressione autoritaria della libertà di parola e del dissenso simile agli anni sotto il governo militare. I diritti umani si sono deteriorati e il numero dei prigionieri politici è aumentato vertiginosamente negli ultimi due anni. Non ha permesso a una nuova generazione di leader politici di emergere e crescere. La vita dei poveri (almeno il 30% della popolazione) ha visto pochi miglioramenti. Il violento conflitto etnico si è intensificato e 1,5 milioni di cittadini delle minoranze etniche (oltre ai Rohingya che sono senza diritto di voto e apolidi) sono stati esclusi dalle elezioni di novembre, apparentemente a causa di problemi di sicurezza.

Questione nazionale e il ruolo delle minoranze etniche: il labirinto birmano

Una delle grandi questioni aperte del Myanmar è la questione nazionale e il ruolo delle 135 minoranze etniche e religiose riconosciute da una legge nazionale sulla cittadinanza del 1982. Si tratta della conseguenza più controversa e sanguinosa del passato coloniale e di decenni di dittatura militare. Sotto l’amministrazione britannica, la gerarchia sociale vedeva gli europei in cima, indiani, cinesi e minoranze cristianizzate al centro e buddisti birmani in fondo. Con l’indipendenza del 1948, come ha sostenuto il giornalista Carlos Sardiña Galache nel libro The Burmese Labyrinth: A History of the Rohingya Tragedy (Verso, London, 2020), in Myanmar l’ideologia egemonica è stata costruita sul concetto di “razze nazionali” (taingyintha) e il suo corollario, che sostiene che solo i membri di quei gruppi appartengono al Paese. Questo insieme di credenze si fonda su una comprensione della razza che separa le comunità etniche in gruppi separati – con al vertice il maggiore gruppo etnico dei Bamar o birmani che rappresentano il 68% della popolazione -, connessi ad un particolare territorio e dotati di tratti culturali e spesso psicologici considerati più o meno inalterabili. La stessa struttura istituzionale e amministrativa dello Stato riflette il rapporto di forze tra i gruppi etnici. Il Myanmar, infatti, è diviso in sette Stati e sette regioni. Le regioni sono prevalentemente Bamar, mentre gli Stati, in sostanza, sono regioni che ospitano particolari minoranze etniche (Kachin, Kayah, Kayin, Chin, Mon, Rakhine, Shan).

La legge del 1982 ha creato tre categorie di cittadinanza: cittadinanza piena, cittadinanza associata e cittadinanza naturalizzata. La cittadinanza piena è data a coloro che appartengono a una delle “razze nazionali” come Bamar, Kachin, Kayah (Karenni), Karen, Chin, Mon, Rakhine, Shan, Kaman o Zerbadee. La cittadinanza associata viene concessa a coloro che non possono provare che i loro antenati si siano stabiliti in Myanmar prima del 1823 (ossia antencedentemente alla Guerra Anglo-Birmana del 1824-1826, la prima di tre guerre combattute tra l’impero britannico e quello birmano nel XIX secolo), ma possono dimostrare di avere un nonno, o antenato nato prima del 1823, che era cittadino di un altro Paese, nonché le persone che hanno richiesto la cittadinanza nel 1948 (al momento dell’indipendenza del Paese). La cittadinanza naturalizzata viene concessa solo a coloro che hanno almeno un genitore con uno di questi due tipi di cittadinanza o possono fornire “prove conclusive” che i loro genitori sono entrati e risiedevano in Birmania prima del 1948.

Sin dall’indipendenza dagli inglesi nel 1948, il Tatmadaw (composto da volontari reclutati per lo più tra la maggioranza buddista Bamar) è stato investito della missione storica di preservare l’unità nazionale, “difendere lo Stato”, in un Paese assediato da conflitti etnici armati (guerriglie degli Shan, Karen, Kachin, Mon, Lahu, Rakhine, etc.). Le forze armate si sono assunte il compito della difesa “delle politiche nazionali, della sasana [la dottrina buddista], delle tradizioni, dei costumi e della cultura”, ha affermato il generale Min Aung Hlaing. Il colpo di Stato del Tatmadaw nel 1962 (allora con un orientamento ideologico filo-sovietico) fu in larga parte frutto della reazione dei militari alla spinta dei gruppi etnici non Bamar per l’autonomia o il federalismo a scapito di un governo centrale civile considerato debole. Sebbene la Costituzione del 1947 prevedesse autonomia e federalismo, i militari interpretavano l’uso del termine “federalismo” come antinazionale, anti-unità e pro-disintegrazione dello Stato.

Di recente, a fare le spese in modo drammatico e disastroso di questa ideologia e missione storica che il Tatmadaw si è autoassegnato, sono stati i 2-3 milioni di persone di etnia Rohingya, non inclusa tra le 135 etnie riconosciute dalla legge del 1982, popolazione musulmana al tempo stesso arakanese e bengali per cultura e lingua del nord dell’Arakan/Rakhine, Stato al confine tra Myanmar (Paese a maggioranza buddista) e Bangladesh (Paese musulmano). Governo e Tatmadaw hanno cercato di espellere con la forza i Rohingya e di sostiurli, portando nell’Arakan/Rakhine popolazioni non Rohingya. Questa politica di “pulizia etnica” ha portato all’espulsione e alla fuga a piedi o via mare di circa 800 mila Rohingya, scappati per sfuggire alle violenze del Tatmadaw nel 2016-17.

L’Arakan è un territorio povero caratterizzato da divisioni etniche e religiose dove le forze dell’esercito nazionale si sono scontrati e si scontrano sia con i ribelli Rohingya dell’Arakan Rohingya Salvation Army sia con i combattenti buddisti Rakhine dell’Arakan Army che rivendicano una maggiore autonomia (rivendicata sul piano politico dall’Arakan National Party), provocando ondate di esuli Rohingiya, ma anche di appartenenti alle antiche tribù Rakhine che considerano i Bamar e il governo centrale che questo gruppo etnico di maggioranza domina come degli invasori. Il governo di Aung San Suu Kyi ha deciso di non far svolgere le elezioni dell’8 novembre 2020 in questo Stato, motivando questa decisione con le tensioni esistenti, nonostante l’Arakan Army avesse concordato un cessate il fuoco con il Tatmadaw. Il governo sapeva che il NLD sarebbe stato battuto dall’Arakan National Party.

I Rohingya, che un movimento ultranazionalista guidato da monaci buddisti ha ritratto come l’avanguardia di una jihad internazionale per islamizzare il Paese, sono stati considerati immigrati bangladesi illegali dal governo. A loro viene negata sia la cittadinanza (dopo avergliela tolta con la legge del 1982) sia il diritto alla proprietà privata. Sono diventati apolidi e in molti casi sono totalmente privi di documenti. Sono fuggiti in massa nel vicino Bangladesh dopo che quasi 300 villaggi sono stati distrutti dai militari e dagli estremisti buddisti tra l’ottobre 2016 e l’agosto 2017 (con almeno 7 mila persone uccise e migliaia di donne e bambini stuprati). Sono alloggiati in campi vicino al confine con il Myanmar, ma il Bangladesh ha iniziato a confinare diverse migliaia di famiglie Rohingya in un insediamento su un’isola remota, nonostante le preoccupazioni per la sua sicurezza e il mancato consenso dei rifugiati.

Dei 2-3 milioni di Rohingya che vivevano nel Myanmar nel 2012 ne sono rimasti ormai solo 500-600 mila. I villaggi Rohingya sono stati isolati, i movimenti delle persone limitati, non possono essere proprietari di terra, le famiglie non possono avere più di due figli, i bambini non possono frequentare le scuole, mentre circa 150 mila Rohingya sono rimasti nella periferia di Sittwe, la capitale del Rakhine, confinati e segregati in piccoli insediamenti controllati dalla polizia che l’ONU ha definito dei “campi di concentramento e dei ghetti urbani simili a quelli in cui vivevano gli ebrei sotto l’occupazione nazista dell’Europa”.

Decine di migliaia di Rohingya hanno cercato rifugio in Malaysia (Paese musulmano) e circa 40 mila vivono in India in campi profughi distribuiti in tutto il Paese, compresa Nuova Delhi, ma il governo del nazionalista indù Narendra Modi li sta rimpatriando in Myanmar. Una parte della comunità Rohingya ha le proprie origini nella manodopera agricola, forzata o indotta, a seconda dei casi, a stabilirsi nell’Arakan prima dagli stessi sovrani locali (dal XV secolo alla fine del XVII), poi dagli inglesi, quando l’ex regno fu unito amministrativamente all’India sotto il dominio britannico (1824-1937). Durante il periodo dell’occupazione giapponese dell’allora Birmania nella Seconda Guerra Mondiale, gli inglesi si allearono con i Rohingya nella guerra contro il governo fantoccio, composto principalmente da Bamar filo-giapponesi (come l’eroe nazionale Aung San, padre di Aung San Suu Kyi) che poi contribuirono fondare l’organizzazione militare Tatmadaw.

Oggi, l’Arakan è di fatto divenuto anche un’enclave cinese in territorio birmano in quanto terminale sia dell’oleodotto e gasdotto della China National Petroleum Corporation (CNPC) sia del Corridoio Economico Cina-Myanmar (dotato di un collegamento stradale e ferroviario in fase di completamento) ai porti con acque profonde di Sittwe e Kyaukpyu sul Golfo del Bengala, con annessa una “Zona economica speciale“. Un’operazione strategica per la Cina, perché ha l’obiettivo di consentire al commercio cinese di accedere direttamente all’Oceano Indiano, aggirando lo Stretto di Malacca, controllato dalla marina militare statunitense, attorno alla Malesia, indebolendo significativamente l’influenza USA nella regione.

L’esercito nazionale non ha combattuto e combatte solo contro Rohingya e Rakhine, ma anche contro una quindicina di altri gruppi etnici che si oppongono ad una “bamarizzazione” e da decenni sono attivi con guerriglie autonomiste sempre sull’orlo – oltreché di un conflitto armato (si calcola che dal 2011 almeno 3 mila soldati siano morti sul campo) – di spinte centrifughe secessioniste. Tra questi ci sono: l’Unione Nazionale Karen (KNU), il più antico gruppo armato etnico del Myanmar; la Kachin Independence Army (KIA) nelle aspre montagne dello Stato di Kachin nel nord del Paese (a prevalenza religiosa cristiana); il Consiglio per la Restaurazione dello Stato Shan (RCSS), anch’esso dotato di un esercito “ribelle”.

Ai responsabili delle diverse entità etniche del Paese organizzate anche in forma militare, il colpo di stato dei militari non è piaciuto perché interrompe il tentativo di Aung San Suu Kyi di avviare un processo di pace che avrebbe dovuto condurre alla costituzione di una federazione birmana (che però avrebbe richiesto l’emendamento della costituzione del 2008) e che già aveva ottenuto, non solo l’adesione di quasi tutte le parti in conflitto (non l’Arakan Army che il governo ha designato come un’organizzazione terroristica nel marzo 2020) ad un Accordo Nazionale per il Cessate il Fuoco che ha fatto tacere le armi in gran parte del Paese. Il colpo di stato militare potrebbe far riavviare una nuova ondata di scontri etnici-identitari. Potrebbe far ripartire le rivendicazioni per un’autonomia secessionista, innescando conflitti militari interni che potrebbero avere rilevanti ripercussioni sulla stabilità regionale del Sud-Est Asiatico sotto il confine meridionale cinese.

Il peso dei rapporti con la Cina

Dal punto di vista geografico, il Myanmar è il più grande Stato del Sud-Est Asiatico ed è strategicamente delimitato da Bangladesh, India, Thailandia, Laos e Cina. La sua economia è stata una di quelle della regione che è maggiormente cresciuta negli ultimi anni (del 6,8% nel 2019) grazie ad una miriade di aziende cinesi – della Cina continentale, di Singapore (il principale investitore in Myanmar) e di Hong Kong – che hanno investito localmente, soprattutto nell’area di Yangon, e ai grandi progetti cinesi come il corridoio economico Cina-Myanmar, una miniera di nikel e una miniera di rame. Nel 2011, i contadini della provincia occidentale di Monywa sono stati sgomberati con la forza per far posto alla miniera di rame di Letpadaung, una joint venture tra l’esercito e la compagnia cinese Wanbao. Quando nel 2012 Suu Kyi ha visitato il sito come capo della Commissione Investigativa Letpadaung del governo, ha detto a coloro che protestavano che avrebbero dovuto rispettare lo stato di diritto e “sacrificare le loro terre” per il bene dello sviluppo del Paese.

Per la Cina il Myanmar rappresenta soprattutto una delle piattaforme strategiche per realizzare la “via marittima” della Belt and Road Initiative. La Maritime Silk Road cinese, infatti, comprende due corridoi: il corridoio economico Cina-penisola indocinese – dalla Cina a Singapore, passando per Vietnam, Laos, Cambogia, Thailandia, Myanmar e Malesia – e il corridoio economico Cina-Bangladesh-India-Myanmar.

Negli ultimi 40 anni, la Cina è diventata il più grande importatore di materie prime al mondo e il più grande esportatore di prodotti finiti, aumentando la sua esposizione alla cosiddetta “trappola della Malacca”, per cui il suo commercio dipende dal collo di bottiglia rappresentato dallo stretto della Malacca, tra Singapore e Indonesia, su cui la Cina non ha alcun controllo. Le sue manovre aggressive nel Mar Cinese Meridionale ed Orientale vanno interpretate come un tentativo di proteggere almeno le acque sul lato orientale dello stretto, dal momento che non può controllare l’Oceano Indiano. Molti dei progetti infrastrutturali della BRI in Myanmar, Bangladesh e Pakistan sono pensati per consentire il trasporto via terra proprio per garantirsi un accesso all’Oceano Indiano. Il commercio cinese si espande rapidamente con l’Unione Europea (con cui la Cina scambia merci per 500 miliardi di dollari in più all’anno rispetto agli Stati Uniti) e il mondo arabo (da cui importa petrolio e gas), per cui è logico che la Cina cerchi di creare dei corridoi terrestri verso l’Europa e la regione del Golfo.

Più di 100 mila cinesi lavorano attualmente in Myanmar, ma prima della pandemia erano 300 mila. Con la pandemia si stima che la crescita economica del Mynmar sia rallentata all’1,7% nel 2020. Il commercio con la Cina – il suo principale partner commerciale – attraverso le rotte commerciali marittime e terrestri e il confine terrestre, ha superato i 17 miliardi di dollari nel 2019, secondo i dati ufficiali locali (mentre quello con gli Stati Uniti è arrivato solo a circa 1,4 miliardi).

Sappiamo che la Cina è già da tempo alle prese con una delocalizzazione industriale (nel tessile, abbigliamento, calzaturiero, etc.) – un processo che la guerra commerciale con gli Stati Uniti ha accelerato – verso Paesi del Sud Est Asiatico come Myanmar, Cambogia, Bangladesh, Thailandia, l’Indonesia, Malaysia, Sri Lanka, e Vietnam, ma anche dell’Africa (Etiopia ed Egitto), dove il costo del lavoro (ma anche quello dell’affitto di aree industriali, logistiche e commerciali o dell’elettricità) è molto più basso di quello cinese, anche se i governi stanno aumentando il salario minimo mensile sia per contenere le proteste degli operai sia per corteggiare gli elettori più poveri.

La Cina è riuscita ad arrivare alla firma (15 novembre 2020), dopo 8 anni di trattative, della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), uno schema free trade (che non copre però il settore dei servizi) al quale partecipano 15 Paesi, i 10 dell’ASEAN (Singapore, Filippine, Thailandia, Vietnam, Myanmar, Laos, Cambogia, Indonesia, Brunei, Malaysia) oltre a Cina, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e Australia, e forse in futuro anche l’India (che si è tirata indietro all’ultimo momento), escludendo gli USA. Il RCEP rappresenta il più grande blocco di libero scambio del mondo con il 30% dell’economia globale e il 30% della popolazione mondiale (2,2 miliardi di consumatori). La posizione di preminenza economico-politica degli USA nell’area Indo-Pacifica, comprendente il Sud-Est Asiatico, è ormai apertamente minacciata dal “socialismo di mercato” cinese, soprattutto in Paesi asiatici come Singapore, Malaysia, Indonesia, Filippine, Myanmar, Cambogia e Vietnam (ma anche India), fortemente interessati ai crescenti flussi commerciali e di investimento finanziario ed industriale cinese. Se nel 2019 gli USA assorbivano circa il 18% dei beni cinesi, l’Eurozona il 15%, il Giappone meno del 6%, il 34% aveva come sbocco il bacino delle nazioni asiatiche di nuova industrializzazione.

Il RCEP dovrebbe aiutare Pechino a ridurre la sua dipendenza da mercati, filiere produttive di fornitura e tecnologie occidentali. Si tratta di un accordo che consente di definire regole commerciali e standard tecnici, ma con regole molto lasche sull’origine dei componenti dei prodotti (incoraggiando la dispersione territoriale delle value chains) e senza clausole sui sussidi di Stato, protezione ambientale, proprietà intellettuale e diritti del lavoro, tutti vincoli del sistema multilaterale non graditi alla Cina.

Il movimento operaio e il movimento di opposizione alla giunta militare

Anche a seguito di una prima ondata di investimenti cinesi, il movimento operaio del Myanmar era in formazione ancor prima della fase di transizione democratica. Una grande ondata di scioperi aveva investito le fabbriche di abbigliamento del Paese per lo più di proprietà straniera nel 2009-10. Il governo militare era intervenuto con decisione, costringendo lavoratori e datori di lavoro a concludere un accordo e riducendo lo slancio del movimento.

Nel 2011 il divieto di costituzione di organizzazioni sindacali è stato abolito e l’anno successivo è stata legalizzata la contrattazione collettiva. Le organizzazioni per i diritti del lavoro che avevano servito i migranti birmani in Thailandia si sono trasferite in Myanmar e hanno accolto gli attivisti che avevano operato in clandestinità negli anni della dittatura.

Gli scioperi sono stati essenziali per la costruzione del movimento sindacale. Nel 2019, un’ondata di scioperi si è verificata nel settore dell’abbigliamento, ormai divenuto imponente – impiega circa 600 mila lavoratori, per il 90% donne, e produce il principale export del Myanmar, insieme con le materie prime minerali (giada, ambra, rubini, zaffiri, nikel, rame, etc.) – solo per scontrarsi con la pandemia CoVid-19, le conseguenti restrizioni agli assembramenti sociali e ora con il colpo di stato militare.

La generazione di attivisti formata durante le proteste represse nel sangue nel 1988 (con migliaia di morti) ha chiesto la continuazione dello sciopero da parte dei lavoratori del settore pubblico per tre settimane. Un periodo in cui si capirà se in Myanmar verrà definitivamente archiviato quello spirito di “riconciliazione nazionale” (che invece, almeno ufficialmente, la diplomazia cinese vorrebbe venisse rilanciato) che per anni Aung San Suu Kyi ha coltivato, mediando e venendo a patti con i militari, in favore di una mobilitazione di massa contro il regime militare e di una lotta per una vera democrazia che metta insieme lavoratori dei settori industriale, edile, agricolo, energetico e logistico, ferrovieri, dipendenti pubblici, medici, insegnanti, studenti, monaci buddisti e altre componenti della società civile. Un fronte ampio di protesta e disobbedienza civile che sia in grado di fronteggiare anche una repressione violenta che la giunta militare potrebbe presto attivare.

Più che le pressioni esterne internazionali, l’esito della crisi sarà inevitabilmente deciso dalle dinamiche interne al Paese (ad esempio, dal riaccendersi dei conflitti tra gruppi etnici armati e Tatmadaw) e dalla mobilitazione degli uomini e delle donne che sfideranno i militari. Il rapporto di forze tra militari e popolazione civile è di certo fortemente sbilanciato in favore dei primi, ma la storia di Paesi vicini al Myanmar, come il Vietnam, ci dice che non si possono mai sottovalutare le energie e le capacità di reazione e organizzazione di una popolazione profondamente offesa e indignata.

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