Moneta Fiscale: i temi essenziali

Presidenza della Commissione Finanze giovedì 23 settembre audizione sui certificati di compensazione fiscale

Sala del Senato Caffè Florian

L’Ufficio di Presidenza della Commissione Finanze, giovedì 23 settembre alle 14, nell’ambito della discussione congiunta, in sede redigente, dei ddl nn. 1945, 1531, 1619, 2014 e 2250, sui nuovi strumenti di sostegno all’economia per emergenza Covid-19 e sui certificati di compensazione fiscale, svolge l’audizione di rappresentanti di AIDEA, del dottor Sylos Labini e del dottor Cattaneo.

di Marco Cattaneo

Il concetto di Moneta Fiscale

Si definisce Moneta Fiscale qualsiasi titolo o attività che possa essere utilizzato dal detentore per compensare obbligazioni finanziarie (di natura fiscale o di qualsiasi altro genere) dovute al settore pubblico. È in altri termini un titolo che dà diritto a uno sconto fiscale, e può essere scambiato ricevendo beni, servizi o un corrispettivo finanziario da soggetti che lo accettino su base volontaria. Il settore pubblico nazionale si impegna da parte sua ad accettarlo in compensazione (come sopra definita) ma non, in nessun modo, ad effettuare pagamenti in cash.

Deficit e debito pubblico non impoveriscono l’economia nazionale

Per comprendere la logica del progetto Moneta Fiscale è necessario sgombrare il campo da alcune affermazioni insensate che purtroppo ancora orientano (anche se per fortuna meno che in passato) il dibattito economico, nel nostro paese e altrove.

In particolare, si sente tuttora dire che il deficit e il debito del settore pubblico costituiscono gravami per l’economia di un paese.

L’affermazione è sbagliata, e la ragione fondamentale è che il deficit del settore pubblico è l’eccesso della spesa del settore pubblico medesimo, rispetto al prelievo fiscale. Questo eccesso di spesa, per evidenti ragioni contabili, si tramuta in un saldo positivo a disposizione del settore privato. Se il pubblico spende più di quanto tassa, il privato riceve più di quanto paga: incrementa, quindi, i suoi redditi e i suoi risparmi.

Il deficit pubblico PUO’ rappresentare un problema ma SOLO in presenza di una di queste due situazioni: l’immissione di potere d’acquisto nell’economia crea (a) livelli di inflazione indesiderata, OPPURE (b) scompensi nei saldi commerciali esteri (il potere d’acquisto immesso dal settore pubblico defluisce verso l’estero).

L’Italia NON soffre oggi di nessuna di queste due situazioni: l’inflazione è da una decina d’anni inferiore alle medie dell’Eurozona; la NIIP (Net International Investment Position) è positiva; i saldi commerciali con l’estero sono, dal 2014 in poi, positivi per importi annui di 40-60 miliardi, tendenti a crescere.

In tutti questi anni, in altri termini, maggiori deficit pubblici avrebbero generato un ARRICCHIMENTO per il paese, senza controindicazioni. Avrebbero messo a disposizione del settore privato nazionale capacità di spesa, senza innalzare l’inflazione a livelli indesiderati (anzi, casomai l’avrebbero avvicinata ai target BCE), e senza creare scompensi nei conti con l’estero.

Quanto al debito pubblico, un paese che emette la sua moneta non ha bisogno di emettere debito per finanziare la spesa del suo settore pubblico. Spende, semplicemente, accreditando le controparti tramite i suoi conti correnti presso l’istituto di emissione.

In questo modo, come visto, immette risparmio finanziario nell’economia. L’emissione di debito pubblico è un servizio offerto al settore privato per impiegare, in un investimento a basso rendimento ma sostanzialmente privo di rischio, il risparmio stesso. Non ha però una necessità logica; è un evento successivo, che potrebbe anche non aver luogo.

La gravissima disfunzione dell’euro consiste proprio nell’aver spossessato gli Stati membri dalla possibilità di effettuare spesa pubblica netta senza passare tramite il collocamento di debito presso i mercati finanziari; e di averli costretti ad emettere debito in una moneta di cui nessuno Stato ha il controllo.

Gli Stati sono quindi costretti a utilizzare, come canale pressoché esclusivo di finanziamento dei deficit, un debito che incorpora un rischio di default che in circostanze normali (emissione di moneta sovrana) non sarebbe esistito.

Si tratta di una disfunzione pesantissima perché impedisce, in varie circostanze, agli Stati di effettuare politiche economiche anticicliche. Ne segue il rischio – già concretizzatosi in passato – di aggravare in modo disastroso situazioni di difficoltà economica che adeguate politiche anticicliche avrebbero consentito di superare rapidamente.

Insufficienza del PNRR

L’Unione Europa ha modificato la sua attitudine nei confronti della gestione della finanza pubblica degli Stati membri, perlomeno rispetto a quanto avvenuto durante la crisi dei debiti sovrani e in particolare tra il 2011 e il 2013.

Allora, si chiedeva agli Stati in difficoltà di attuare contemporaneamente riforme economiche e di ridurre i deficit pubblici.

Le politiche di austerità (“consolidamento fiscale”) hanno invece pesantemente aggravato la crisi, provocando cadute di PIL e accrescendo, in luogo di diminuire, il rapporto tra debito pubblico e PIL medesimo.

Almeno implicitamente, la UE ha riconosciuto l’infondatezza delle politiche prescritte in passato. Il Piano Nazionale di Resilienza e Ripresa (PNRR), precondizione per l’accesso ai fondi del NextGenerationEU (NGEU), non prescrive riforme “e” austerità”, ma riforme “insieme a” politiche espansive.

Il problema è che la dimensione del NGEU, definita da molta stampa come “immensa”, “ciclopica”, “oceanica” e via iperboleggiando, è in realtà insufficiente.

L’ultima versione del Documento di Economia e Finanza (DEF) predisposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) nell’aprile 2021, prevede che il deficit pubblico italiano (“quadro programmatico”) si evolva come segue.

2021           2022           2023           2024

11,8%         5,9%           4,3%           3,4%

È quindi prevista una violenta contrazione, soprattutto nel 2022, che potrebbe facilmente risultare incompatibile con un’adeguata e permanente ripresa dell’economia del paese.

Un’adeguata ripresa richiede, per inciso, non solo di compensare pienamente il calo (-8,9%) del PIL reale registrato nel 2020 per effetto del Covid, ma anche di porre l’Italia su un sentiero di deciso recupero rispetto alle medie UE / Eurozona, rispetto alle quali siamo stati pesantemente deficitari dall’introduzione dell’euro in poi.

Questo percorso dovrebbe ricevere un impulso dal PNRR. I mezzi finanziari messi a disposizione all’Italia vengono stimati in circa 200 miliardi. Di questi, tuttavia, 120 sono finanziamenti: non rappresentano quindi soldi in più immessi nell’economia, ma solo una fonte di approvvigionamento alternativa rispetto all’emissione di titoli di Stato. Forse a minor costo, ma la differenza non potrà essere rilevante, dato che attualmente l’Italia emette BTP decennali con rendimento intorno allo 0,6-0,7%.

Non stupisce, in effetti, che molti paesi UE abbiano deciso di non utilizzare la quota di finanziamenti del NGEU.

Gli altri 80 miliardi, cosiddetti “grants” o “contributi a fondo perduto”, a fondo perduto in realtà non sono, in quanto dovranno essere compensati da futuri versamenti o tasse. Almeno temporaneamente, SE verrà confermato che non verranno contabilizzati come maggior deficit al momento dell’erogazione, danno comunque un beneficio: ma insufficiente, tenuto conto che verranno posti a disposizione nell’arco di 4-5 anni.

La Moneta Fiscale risolve le disfunzioni dell’eurosistema

Il presidente del consiglio Mario Draghi appare consapevole dell’insufficienza del PNRR. In più occasioni, ha infatti affermato che il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) non potrà essere riattivato in forma invariata rispetto all’assetto attuale (temporaneamente sospeso, fino a fine 2022, a causa dell’emergenza Covid).

Il problema è che le posizioni degli Stati membri dell’Eurozona sono sostanzialmente antitetiche. I paesi mediterranei vogliono un PSC più flessibile ed espansivo; i paesi del Nord chiedono che sia ripristinato in termini invariati, se non più rigidi e restrittivi.

I paesi del Nord temono che un eccesso di debito pubblico di altri Stati membri possa dar luogo a eventi di default o alla spaccatura della moneta unica. Non accettano però un illimitata e incondizionata garanzia da fornirsi da parte della BCE, che richiederebbe una riscrittura dei trattati per la quale non appare raggiungibile il necessario consenso, neanche in tempi lunghissimi.

Il compromesso politicamente perseguibile tra le due posizioni consiste nel mantenere l’impegno alla riduzione del rapporto debito pubblico / PIL degli Stati membri, precisando però che il debito pubblico di riferimento non comprende la Moneta Fiscale.

La Moneta Fiscale potrà quindi essere utilizzata per attuare le politiche espansive necessarie al raggiungimento e al mantenimento del pieno impiego delle risorse produttive del paese.

La Moneta Fiscale non comporta impegni di pagamento da parte dello Stato emittente, che quindi non potrà mai essere forzato da situazioni di mercato finanziario a disconoscere l’impegno di accettazione (per compensare obblighi finanziari verso lo Stato emittente stesso).

Neanche un eventuale fenomeno di “indisciplina”, di eccesso di emissione di Moneta Fiscale, da parte di uno Stato lo porterà a essere forzato al default. Al massimo depaupererà il valore della Moneta Fiscale di quello Stato, perché circoleranno più titoli di quanti se ne riesca in pratica a utilizzare nelle scadenze prestabilite. Ma questa eventualità (peraltro estremamente improbabile) non avrà un riflesso sull’assetto generale dell’eurosistema né forzerà la BCE o gli altri Stati membri a dover intervenire per preservarne la stabilità. Resterà un problema interno allo Stato in questione.

Spazio sia per maggior spesa che per minor carico fiscale

La Moneta Fiscale potrà essere utilizzata sia per finanziare interventi di spesa pubblica (pubblico impiego, spesa sociale, investimenti, sostegno ai redditi) che per ridurre il carico fiscale effettivo (senza necessariamente ridurre tasse o imposte, ma compensando, in parte, il contribuente mediante erogazione di Moneta Fiscale).

Sul tema della tassazione, in particolare, va notato che in questo momento si sta discutendo di una riforma del sistema fiscale. Il problema è che, a quanto si legge, la riforma dovrebbe essere attuata lasciando invariato (o quasi) il gettito complessivo.

L’Italia ha bisogno, certamente, di una riforma fiscale, ma finalizzata a lasciare più potere d’acquisto in mano al settore privato dell’economia. Una riforma “a saldo zero” significa che qualcuno sarà contento e qualcuno scontento, ma l’impatto macroeconomico sarà vicino all’irrilevante. Saldo zero significa impatto zero. Molte parole, molto lavoro per fiscalisti e commercialisti, ma nulla che faccia una differenza apprezzabile sul raggiungimento degli obiettivi economici del paese.

Recupero del pieno impiego in condizione di equilibrio dei saldi esteri

Una parte delle erogazioni di Moneta Fiscale potrà essere effettuata a beneficio dei datori di lavoro, riducendo il peso effettivo del cuneo fiscale. Le produzioni italiane diventeranno immediatamente più competitive, evitando che una parte dell’effetto espansivo del progetto Moneta Fiscale si disperda in peggioramento dei saldi esteri.

Il progetto Moneta Fiscale mette in effetti a disposizione del governo due leve: l’espansione della domanda interna da un lato; il recupero di competitività (via riduzione del cuneo fiscale, appunto) dall’altro.

Le due leve possono essere regolate nel tempo, assicurando il mantenimento del pieno impiego unitamente all’equilibrio degli impatti sulla bilancia commerciale.

Non si chiedono garanzie né a BCE né a nessuno, mentre il peso del “defaultable debt” diminuisce

Non occorre che BCE, UE o Stati membri forniscano garanzie addizionali. Sarà sufficiente la presa d’atto che si sono create le condizioni per ridurre, gradualmente ma costantemente nel tempo, il peso del debito a rischio di default, rispetto a un PIL nominale e reale finalmente in stabile crescita.

La semplice constatazione che le disfunzioni del sistema sono state finalmente risolte è adeguata per rassicurare i detentori del debito pubblico che il sistema è diventato, finalmente e permanentemente, stabile e affidabile.

Non serve una perfetta equivalenza tra maggior gettito lordo e sconti fiscali utilizzati

Il progetto Moneta Fiscale è stato criticato da alcuni commentatori in quanto, si afferma, non c’è certezza che l’espansione economica prodotta dalla disponibilità di maggior potere d’acquisto produca PIL e quindi gettito fiscale lordo in misura corrispondente agli sconti fiscali, via via che questi diventano utilizzabili.

La certezza non c’è perché l’effetto espansivo è governato dai cosiddetti “moltiplicatori fiscali”, sulla cui dimensione (come su qualsiasi manovra di politica economica) a priori si possono formulare ragionevoli ipotesi, non previsioni precise al centesimo.

Va però chiarito un equivoco: non è necessario che questa equivalenza perfetta si verifichi, perché un eventuale ammanco potrebbe facilmente essere compensato incrementando gradualmente nel tempo le emissioni di Moneta Fiscale.

Ad esempio, la formulazione originaria del progetto Certificati di Compensazione Fiscale (una della possibili forme di Moneta Fiscale) prevede che gli sconti fiscali che diventano via via utilizzabili (con un differimento temporale di due anni rispetto all’emissione) arrivino gradualmente a 100 miliardi di euro annui.

Gli incassi totali lordi del settore pubblico italiano sono dell’ordine di 800 miliardi, e tenderanno a salire con l’espansione del PIL nominale. Emettere qualcosa più di 100 nell’anno in cui 100 di sconti fiscali vengono utilizzati significa che continuerà a esistere un’enorme differenza tra Moneta Fiscale in circolazione e incassi lordi del settore pubblico. Il rischio che le emissioni di Moneta Fiscale raggiungono livelli tali da svilirne il valore è, in pratica, infinitesimale.

La BCE può finalmente uscire da QE / politica del tasso zero / repressione finanziaria

Per evitare il collasso dell’Eurozona, la BCE è stato costretta ad adottare politiche di “repressione finanziaria”, tra cui il Quantitative Easing e l’abbattimento a zero (se non a livelli negativi) dei tassi di rifinanziamento applicati alle banche – e di conseguenza anche dei rendimenti dei titoli di Stato emessi dai vari Stati membri.

Questa politica è stata vivacemente contestata da molti commentatori economici, specialmente nei paesi del Nord Europa.

In effetti, non è più disponibile per i risparmiatori un’alternativa di impiego che garantisca, in condizioni di sicurezza, un modesto ma positivo rendimento.

La critica ha un fondamento, ma chi la formula dovrebbe sostenere con entusiasmo il progetto Moneta Fiscale.

Infatti, risolvendo le disfunzioni dell’euro e portando finalmente il sistema economico al pieno impiego nell’intera Eurozona, non ci sarà più ragione per cui la BCE debba proseguire con i suoi programmi di repressione finanziaria.

La posizione di Eurostat e la dimensione politica della Moneta Fiscale

Su richiesta dell’ISTAT, l’ufficio statistico della UE (Eurostat) ha affermato che le detrazioni fiscali del “Transition Plan 4.0” devono essere considerate “crediti fiscali pagabili”, e quindi ricompresi nel debito pubblico, in quanto hanno natura di “sussidi”.

Ma lo stesso regolamento Eurostat all’articolo 4.30 precisa al contrario che non c’è sussidio nel momento in cui non sussiste pagamento. E la Moneta Fiscale NON prevede alcun tipo di pagamento, anzi lo esclude in modo perentorio.

Eurostat ha anche sollevato dubbi sulla natura di “crediti fiscali non pagabili” del “Bonus 110%” in quanto la loro cedibilità rende elevata la probabilità che vengano effettivamente utilizzati.

Anche qui, Eurostat fa leva su un’interpretazione che non si può neanche considerare estensiva, bensì inventata di sana pianta. Come dice il nome stesso, “credito fiscale pagabile” è quello che dà luogo a un impegno di pagamento. L’alta o bassa probabilità di utilizzo da parte del detentore del credito non ha nessun rilievo ai sensi dei regolamenti.

È legittimo il dubbio che dietro a queste strampalate “interpretazioni” tecniche ci sia la volontà di depotenziare uno strumento che, agli occhi delle istituzioni comunitarie (o forse solo di qualche funzionario animato da eccesso di zelo male indirizzato) consente agli Stati un recupero di autonomia nella definizione delle linee di politica economica.

È comunque un tema troppo importante perché ci si debba bloccare su fantasiose “letture” dei regolamenti. Se il “defaultable debt” in rapporto al PIL cala, nessuno può sensatamente eccepire che la circolazione di Moneta Fiscale crei scompensi al sistema: al contrario, li risolve.

Governo e parlamento italiano devono esigere che questo concetto sia inequivocabilmente recepito dalle autorità UE, se opportuno anche ottenendo di incorporare i necessari chiarimenti formali nel processo di revisione del PSC. Come detto, la revisione del Patto è un passaggio cruciale, e deve portare a una sua ridefinizione che ne elimini le disfunzionalità.

La Moneta Fiscale non è la via per rompere l’euro: è la garanzia della sua continuità

La Moneta Fiscale non è un meccanismo per agevolare la rottura dell’euro. Risolvendone le disfunzioni, ne garantisce in effetti la continuità, oggi periodicamente revocata in dubbio.

La Moneta Fiscale non è uno strumento sostitutivo, ma integrativo dell’euro. Per rendersene conto, basta constatare che il progetto prevede una circolazione di Moneta Fiscale di qualche centinaio di miliardi, mentre il valore totale delle attività finanziarie detenute dal settore privato nazionale è dell’ordine di 5.000 circa.

La Moneta Fiscale inverte il declino dell’Eurozona, che diversamente la condanna all’irrilevanza economica

Riformare l’Eurozona secondo le linee del progetto Moneta Fiscale è la via per arrestare il rapido e progressivo declino dell’Eurozona nei confronti del resto dell’economia mondiale.

Secondo i dati storici e previsionali del Fondo Monetario Internazionale (World Economic Outlook, Aprile 2021) nel ventennio 2003-2022 la crescita di PIL reale degli USA risulta pari al 51,6%. Quella dell’Eurozona, al 20,5%.

Questa enorme differenza è la diretta conseguenza della governance economico-monetaria: politiche adeguatamente espansive e orientate al piano impiego negli USA; bias deflattivo e orientamento prociclico nell’Eurozona.

Il percorso dell’Eurozona, in assenza di un netto cambio di direzione, non la conduce, come si vorrebbe, a farne un blocco economico in grado di competere alla pari con USA e Cina. La condanna invece, anno dopo anno, a diventare sempre più secondaria, sfociando alla fine in una sostanziale irrilevanza.

La Moneta Fiscale è lo strumento tecnico adeguato per conseguire questo cambio di direzione

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