
di Salvatore Azzuppardi
La mattina del 30 aprile 1982, mentre guidavo ascoltando come sempre la radio, sentii al giornale radio di mezzogiorno una notizia che mi sconvolse. Quella mattina a Palermo era stato ucciso, insieme al suo autista, Pio La Torre, storico leader del PCI in Sicilia, da sempre alfiere della lotta alla mafia. Dovetti fermarmi ai bordi della strada perché per la rabbia cominciai a piangere e dare pugni sul volante, scioccato da quell’assassinio, vile come tutti gli omicidi di mafia.
La sera telefonai a un’amica palermitana con la quale avevamo parlato spesso delle contraddizioni della nostra terra. Volevo esserle vicino in quel momento così triste e avere a mia volta conforto da lei.
«Ciao, lo sapevo che eri tu» mi disse, poi si mise a piangere, anche lei di rabbia. «Infami schifosi, bisognerebbe sbatterli in galera senza processo e farli marcire là dentro.» Ascoltai il suo sfogo senza interrompere, perché c’era poco da aggiungere. Condividevo i suoi sentimenti e non pensavo, come sostenevano alcuni, che ci volesse la pena di morte. Per dei parassiti abituati a vivere alle spalle degli altri con minacce e estorsioni, la pena peggiore sarebbe stata essere condannati a lavorare.
Ricordammo insieme Pio La Torre, che in quel momento era la speranza dei siciliani onesti, per la sua proposta di legge sull’istituzione del reato di “associazione mafiosa” e per la confisca dei loro patrimoni, misure che certamente, se tradotte in legge, avrebbero dato un’arma in più allo Stato per combattere la mafia.
Chi era Pio La Torre? «Era … uno che voleva vedere i risultati dell’azione politica. E la mafia non spara nel mucchio. La mafia uccide chi la combatte e chi le dà filo da torcere. La Torre intendeva aggredire i problemi in modo pratico, parlando meno e agendo di più».
Non ancora ventenne, nell’immediato dopoguerra – in parallelo con l’azione svolta da numerosi sindacalisti della CGIL, molti dei quali uccisi da Cosa Nostra (fra essi Placido Rizzotto e Salvatore Carnevale) si fece paladino delle lotte contadine per reclamare l’assegnazione delle terre a chi le coltivava e le faceva produrre, e questo gli attirò da subito le attenzioni dei potenti locali, sia politici che mafiosi.

Tutta la sua vita fu dedicata alla difesa degli oppressi e oltre ai sindacalisti sopra ricordati, il suo impegno può essere paragonato anche a quello di un altro grande palermitano, Padre Pino Puglisi, ucciso undici anni dopo. Tutti loro sono caduti per il loro impegno sociale, per la spinta al cambiamento che quell’impegno avrebbe potuto generare.
Le ricadute politiche dell’azione di La Torre fanno inquadrare la sua uccisione e quella di due altri importanti vittime di Cosa Nostra, come omicidi politici.
Nella Relazione finale del Presidente della Commissione Antimafia dell’XI Legislatura si legge infatti: «Gli omicidi politici di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Pier Santi Mattarella e di Pio La Torre sembrano andare oltre la comune azione di mafia, proprio per la personalità degli assassinati, per i progetti che essi perseguivano…»
In quegli anni, quando la famosa “strategia della tensione” era ancora in pieno svolgimento, altri attenti osservatori, come i giudici del pool di Palermo, avanzarono il sospetto che « … Omicidi come quelli di Michele Reina, segretario provinciale della Dc di Palermo, di Pier Santi Mattarella, presidente della Regione Siciliana e autorevolissimo esponente della Dc isolana, di Pio La Torre, segretario regionale del Pci, e per certi versi, anche di Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto di Palermo, sono fondatamente da ritenere di natura mafiosa ma al contempo sono delitti che trascendono le finalità tipiche di un’organizzazione criminale, anche se del calibro di Cosa nostra […] qui si parla di omicidi politici, di omicidi cioè in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi mafiosi ed oscuri interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica”.»
Che l’uccisione di Pio la Torre potesse avere a che fare con quella convergenza di malefici interessi, era già stato ipotizzato alcune settimane dopo il delitto da Rocco Chinnici, padre del pool antimafia e dal suo collega Mannino, i quali in una relazione al Consiglio Superiore della Magistratura riassunta da Nicola Tranfaglia evidenziarono che «la connessione tra il fenomeno mafioso, la P2 e i terrorismi […] non può spiegarsi soltanto con ragioni generiche di contiguità o di sporadica collaborazione, ma acquista senso se si ipotizza un sistema di potere complesso che collega realtà diversificate e … apparentemente distanti. In questo senso possono spiegarsi azioni e obiettivi altrimenti singolari e poco convincenti. Chinnici e Mannino hanno indicato in Pio La Torre una vittima di questo intreccio.» La Torre potrebbe rientrare in “questo intreccio” perché, come ha ipotizzato qualcuno, una causa della sua uccisione sarebbe stata la sua attività contro l’apertura della base missilistica americana a Comiso. Personalmente questa ipotesi non ci convince molto. Infatti, se teniamo conto del danno enorme che sarebbe derivato alle cosche dalla confisca dei beni di provenienza illecita, Cosa Nostra resta il principale indiziato per quel delitto.
In realtà per oltre due anni e mezzo la proposta di legge di La Torre languì alla Camera e solo il 13 settembre 1982, sulla spinta dell’indignazione popolare per l’uccisione del prefetto dalla Chiesa, il parlamento approvò l’introduzione nel nostro codice penale del reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni di provenienza illecita.
La legge è comunemente chiamata “Rognoni-La Torre”, ma ingiustamente a nostro avviso, poiché Rognoni era il ministro dell’Interno che aveva negato al Prefetto dalla Chiesa i necessari poteri di coordinamento indispensabili per una efficace azione antimafia. Pertanto preferiamo chiamarla semplicemente Legge La Torre, come giusto omaggio all’uomo che ha pagato con la sua vita per le innovazioni ai codici da lui proposte.
È importante ricordare, per rendere loro il giusto merito, che alcune delle misure introdotte dalla legge La Torre erano state inutilmente auspicate anni prima da Leonardo Sciascia e da Carlo Alberto dalla Chiesa.
Nel suo romanzo Il giorno della civetta, del 1961, lo scrittore di Racalmuto scrive: «bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (…), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso».
Nel 1973, in una relazione inviata alla Commissione Parlamentare Antimafia quando era comandante della Legione Carabinieri di Palermo, l’allora Colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa scrisse: «è da ritenere che, attraverso un controllo fiscale adeguato (verifica di ingenti e rapide fortune, costituzione di Società fittizie e non, apertura di catene di ristoranti e ritrovi, concessione di mutui e crediti non giustificasti da attività palesi o da specifiche competenze professionali o tecniche, ecc.), ben potrebbero essere assicurate le prove ed i nomi, per i quali ormai da troppo tempo si opera a vuoto.»
Fa rabbia constatare che prima le intuizioni di due grandi conoscitori del fenomeno mafioso e poi la proposta di legge di Pio la Torre che le raccoglieva, si siano infrante troppo a lungo contro il muro di gomma del potere politico.
Ringraziamo Pio la Torre e gli altri caduti per la legalità, per quanto hanno fatto.
1 ‘Tratto da “Pio La Torre un racconto su Palermo e la Sicilia, il PCI e la mafia” di Giovanni Burgio, edito dal centro di Studi e di Iniziativa Culturale Pio La Torre, di Palermo.
2 In Compendio del Dipartimento di analisi, studi e monitoraggio dei fenomeni criminali e mafiosi (Liberare Maria dalle mafie) vol. V, parte XV, Ed. PAMI, Città del Vaticano, 2021, Pag. 50-52
3 Dalla sentenza istruttoria del maxiprocesso, citata da Nicola Tranfaglia in La mafia come metodo. Il Mezzogiorno e la crisi del sistema politico italiano, Studi Storici, Luglio-Settembre 1990, Anno 31, No. 3, Fondazione Istituto Gramsci, pag. 638.
4 TRANFAGLIA, La mafia come metodo. 641-642. Tranfaglia fa riferimento a R. Chinnici, S. Mannino, La mafia oggi e la sua collocazione nel più vasto fenomeno della criminalità organizzata, in Riflessioni ed esperienze sul fenomeno mafioso. Incontro tra il Consiglio superiore della magistratura e i magistrati 4-5-6 giugno 1982, supplemento alla rassegna «Il Consiglio superiore della magistratura», maggio-giugno 1982, pp. 19-37
5 Dalla Chiesa C.A., Ricostruzione del fenomeno mafioso, in Compendio del Dipartimento di analisi, studi e monitoraggio dei fenomeni criminali e mafiosi (Liberare Maria dalle mafie) vol. II appendice 1, Ed. PAMI, Città del Vaticano, 2021
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