Minacce, provocazioni e promesse non arrestano la pacifi ca protesta degli algerini

Non arrestano la pacifica protesta degli algerini

di Alessia Muccio

Da settimane l’Algeria è percorsa da un imponente movimento popolare che ogni venerdì, giorno festivo nei paesi musulmani, rivendica una radicale riforma del sistema e la trasformazione del paese. L’Algeria è un vicino di casa del quale si parla molto poco. L’apparente “gigante dormiente” in realtà ha un notevole peso negli equilibri del Mediterraneo ed ancora più apparente era l’apatia del suo popolo, che sta dimostrando di essere tutt’altro che soggiogato o addormentato nelle dinamiche dell’azione del potere consolidato. Non si intende in questa sede proporre ancora alcuna analisi approfondita degli eventi algerini e neanche azzardare ipotesi su futuri scenari geopolitici dal momento che la situazione è in costante evoluzione, ma giusto proporre qualche rifl essione su un popolo che ha deciso di non delegare più la propria sovranità. L’innesco della mobilitazione è stato l’annuncio, il 10 febbraio, della candidatura per il quinto mandato consecutivo dell’oramai ex presidente Abdelaziz Boutefl ika. Questa è stata, evidentemente, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. In effetti, da anni il malessere veniva già espresso con scioperi e manifestazioni che hanno visto impegnate ora questa ora quella categoria ed eclatante è stato il boicottaggio delle ultime elezioni legislative nel 2017, per le quali si è registrata una partecipazione del 35% secondo il governo e di appena il 12% secondo le opposizioni. Nelle settimane precedenti l’annuncio della ricandidatura di Boutefl ika, il fermento popolare, ancora scomposto, era evidente e il governo aveva iniziato con una strategia delle minacce neanche poi così tanto dissimulata. Si contava sull’arrendevolezza generata dalla paura e dall’incertezza della concre-tizzazione delle minacce stesse secondo una dinamica ben nota. Era palese che le elezioni presidenziali, che avrebbero dovuto tenersi il 18 di aprile, erano già determinate, interamente gestite dalla famiglia Boutefl ika e dal suo “clan” nei ruoli chiave istituzionali. L’annuncio evidentemente ha fatto da “collante sociale” e dal 22 febbraio, milioni di persone manifestano pacifi camente in tutte le città. Quelle che prima erano rivendi-cazioni puntuali, e lo sono ancora durante la settimana, diventano un unisono il venerdì. Nessuna bandiera colorata, salvo quelle nazionali e berbere (amazigh), tanti quaderni e fogli scritti a pennarello, tanta determinazione e un esemplare senso civico. Algerine e algerini non si sono accontentati della rinuncia alla ricandidatura, né della successiva destituzione del presidente su impulso del capo dello Stato Maggiore dell’esercito e settimana dopo settimana rifi utano tutte le azioni poste in essere dal nuovo governo, non percepito come legittimo. Esigono il cambiamento del sistema e non un cambiamento nel sistema, elezioni trasparenti e dopo più di mezzo secolo dalla liberazione dal colonialismo francese, il diritto all’autodeterminazione. L’Algeria formalmente è una Repubblica Presidenziale ma di fatto è un regime e i militari, pur dichiarandosi schierati con l’espressione popolare fin dal principio, non sono altrettanto graditi.

Diverse voci non accettano l’accostamento delle odierne proteste alle cosiddette “primavere arabe” del 2011, tanto meno che esse ne siano l’estensione sia per la dinamica con cui all’epoca si originarono le manifestazioni in nord Africa, sia per la storia e le caratteristiche sociali, politiche ed economiche dell’Algeria. Le ragioni della mobilitazione attuale sono sicuramente legate al peggioramento della qualità della vita determinato dal crollo del prezzo del petrolio, che costituisce il 95% del PIL del paese, ma sono imprescindibili da un doloroso passato. Centotrentadue anni di colonizzazione francese, durante i quali l’identità del popolo annichilita, come se la storia algerina iniziasse dall’anno zero con la colonizzazione stessa. È stato cancellato l’assetto sociale e la popolazione è stata ridotta di un terzo da omicidi di massa, malattie e fame. Tralasciando la guerra di liberazione dalla colonizzazione (il cui prezzo è stato 1.400.000 morti algerini) senza tuttavia acquisire la libertà di essere una democrazia sostanziale, anche il decennio di guerra civile (1991-2002) ha lasciato traumi profondi, come ogni guerra del resto. Come sottolinea lo storico Jean-Charles Jauffret: “il paese è stato traumatizzato da questa terribile guerra senza volto, senza giornalisti. Non si sapeva neanche chi uccideva chi. Chi incendiava quel villaggio, chi sgozzava quella famiglia”. Dopo dieci anni di violenza si è raggiunta una certa stabilità e con la redistribu-zione dei proventi della vendita del petrolio, all’epoca al suo massimo, si garantiva un miglioramento della qualità della vita. In fondo gli algerini, con le ferite ancora presenti delle violenze subite non avevano grossi motivi per protestare nel 2011 e, a parte alcune frange sparute, sono rimasti distanti non da ultimo per i pronti incentivi del governo con ulteriori redistribuzionieconomiche. Successivamente, con la caduta del prezzo del petrolio, il paese ha però iniziato ad andare in sofferenza e l’apparato politico, corrotto ad ogni livello, non è stato capace di proporre soluzioni. Oggi è il popolo che a tutti gli effetti sta determinando l’agenda politica del paese, destabilizzando la consuetudine nel meccanismo di potere. Quello che colpisce è la maturità politica collettiva fi n qui dimostrata, il coordinamento e l’autoregolazione in questa folla che sembra muoversi come un unico organismo. Le persone per strada stavolta sono tante, troppe (si stimano in 10-15 milioni), senza distinzione sociale o genera-zionale, malgrado pressioni psicologiche, minacce, fermi, divieti di manifestare, tentativi di censura, islamismo, aggressioni da parte di “infi ltrati” che hanno “giustifi cato” la polizia ad intervenire con lacrimogeni e cannoni d’acqua. Vedremo come si svilupperà il corso degli eventi nelle settimane o mesi che seguiranno, ma adesso il messaggio della società algerina è che la sovranità popolare è una maturazione, l’acquisizione di una coscienza collettiva in cui confl uisce quella individuale, in un processo di alimentazione reciproca. Al di là di qualsiasi speculazione, sicuramente una larga parte della società era pronta e ha risposto ai ricorsi del potere in modo “non conforme”, uscendo dalla spirale del rifl esso condizionato. Ad ogni intimidazione sembra sia aumentata la consapevolezza del proprio potenziale. Personalmente non condivido espressioni come “popolo bue”, “ analfabetismo funzionale” e simili, perché il potere, inteso come meccanismo e quindi indipendentemente da chi viene esercitato, agisce su due leve fondamentali: la paura e la speranza. In Algeria, sebbene ci fosse preoccupazione per le possibili reazioni repressive, evidentemente il muro della paura è stato superato e la speranza si è trasformata da passiva rassegnazione che gli avvenimenti siano guidati per il meglio da una forza superiore a fi ducia che fa agire assumendosi la responsabilità del proprio presente per costruire il futuro desiderato. Probabilmente alla nostra latitudine il processo è solo in corso e a un momento dato si manifesterà massivamente. Se una parte dei nostri concittadini è ancora stordita e spaventata dalla perdita di troppi punti di riferimento, sempre più persone però stanno prendendo consapevolezza, a vari gradi e stati emotivi, dell’insostenibilità dell’attuale sistema politico, economico, fi nanziario e sociale. Del resto, se la vita biologica si fosse organizzata secondo il modello con cui l’uomo ha organizzato le sue istituzioni, dubito che la vita stessa esisterebbe.

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