Stoicismo e “resilienza”: breve fenomenologia di un recente caso di Neolingua

I nostri tesori sono il bello, il bene, la virtù e la conoscenza

La vecchia lingua del politichese

di Paolo Genta

Lo sappiamo da tempo: la Neolingua ed il Bispensiero di Orwell (“Newspeech”, e “Doublespeech”) sono diventati elementi insopportabilmente ordinari della nostra contemporaneità. Qualcosa che ci si impone dall’alto, in modo tanto anonimo quanto irrimediabile e che subiamo quotidianamente, senza sapere chi e dove abbia deciso di introdurre un nuovo meme virale, capace di staccare la spina alla nostra capacità di interpretare il mondo, di spegnere in noi le stesse parole che vorremmo usare per pensare, per pensarci. Meravigliosamente terribile l’impresa della aggiornatissima ultima edizione della Nuova Enciclopedia della Neolingua, in “1984”, che attraverso l’acefalo entusiasmo dei suoi compilatori di regime, inconsapevoli schiavi indottrinati e superspecializzati, compie l’operazione inversa di limitare e sintetizzare il lessico umano, anziché di estenderlo e raffinarlo, a tal punto da ridurre la stessa capacità espressiva, praticamente, ad una sequenza di insignificanti e rozzi acronimi, comprensibili solo a soggetti transumani (qualcosa di simile risuonava già ai tempi del Fascismo, con il famoso “MinCulPop). Ebbene, tra i tanti casi di “riduzione della complessità” (una riduzione di regime, ovviamente nemica della stessa complessità) ci capita di riflettere su un termine ormai abusato da qualche tempo e che, in perfetto stile neolinguistico, ha sostituito quello “vecchio”, umano troppo umano, che mal si adatta, secondo le perfide menti globaliste, alla “mente nuova” dello schiavo del secolo ventunesimo. L’impero colpisce ancora, anche se sembra prendere sventole che sembrano arrestarlo, almeno momentaneamente, come quei pugili suonati che non vanno mai al tappeto. Ma, tant’è. Per amor di suspense, non sveliamo subito di cosa si tratta: facciamo prima una breve storia della vittima di questo omicidio linguistico, per poi volgere la nostra attenzione al sicario, mandato, come sempre, non solo ad eliminare, ma a sostituire sfacciatamente il deceduto. C’era una volta, infatti, l’essere “stoici”, lo Stoicismo, la mentalità stoica. Il mondo ellenistico ci ha lasciato la descrizione di un’epoca assai simile alla nostra. Dominavano governi eterodiretti, monete straniere, occupazioni militari di eserciti dalle lingue incomprensibili, una incipiente specializzazione delle scienze, il successo della corruzione e del dominio di pochi “rentiers” economici, una povertà diffusa, il fallimento delle classi medie, l’accentramento del potere in poche mani, la perdita di centralità delle Poleis elleniche, l’annullamento dei confini della Koinè greca, come comunità integrale di una cultura comune. Tutto ciò generava incertezza esistenziale, perdita di significato, paura del futuro, desiderio di ritiro nell’intimità famigliare, necessità di ridurre le proprie frequentazioni, di sceglierle con cura, di affidarsi a persone integre e specchiate (pochi veri ed autentici amici), perdita di interesse per le grandi questioni metafisiche e una, conseguente, maggiore attenzione per i temi etici, per una condizione basale di appropriazione dei piaceri disponibili, semplici e moralmente condivisibili, accuratamente e razionalmente selezionati, per una ottimistica gestione del dolore (breve, se intenso e sopportabile se costante), per un tentativo, insomma, di aggrapparsi, quasi disperatamente, alla logica della evidenza sensibile, in un mondo di menzogna, di tradimenti e, soprattutto, di cambiamenti politici e sociali repentini, che, paradossalmente, spingevano l’uomo ex-ellenico (ora ellenista, siamo nel IV° secolo a. C.) ad accettare anche di non sapere più a quale patria appartenere e, quindi, a rendersi disponibile ad una vita intellettuale anche cosmopolita. Vi risuona? Erano gli Stoici e l’approccio “stoico”, in campo etico significava anche, tra le innumerevoli altre cose che essi ci hanno tramandato, un atteggiamento di irrinunciabile applicazione costante della loro idea di valore interiore, di quel senso della impossibilità di fare compromessi con il loro modo di comprendere quella realtà così instabile e contraddittoria. Fu lì che nacque, proprio, il concetto di valore: l’impegno etico non consiste in una penosa sopportazione del dolore, bensì nella piena consapevolezza che una volta che i principi di una saggezza filosofica e della stessa felicità, come allontanamento dai bisogni e dal timore, si siano resi impossibili da sostenere, non valga più, in fondo, la pena di vivere. Noi non ci spingiamo fino agli esisti radicali dell’etica del suicidio stoico, ma ne comprendiamo forse l’essenza: ci sono cose che provengono da un nostro integro ed integrale senso morale, alle quali non possiamo rinunciare. Sono i valori più autentici di un modo di intendere la vita, quello stoico-ellenistico, che non si accontenta di ripiegarsi su sé stessi, ma accetta di vivere questa incertezza fino in fondo (in modo quasi sovrapponibile all’eroismo del “Superuomo” di Nietzsche). Non entriamo nei dettagli del sistema etico degli stoici: ci serve solo capire una cosa. Essere stoicamente determinati significa obbedire ad un comando della propria Coscienza il cui Demone ci impedisce, per senso interno del Dovere, di accettare compromessi riguardo ad un certo modo di intendere la vita, quello stoico, appunto. Cosa implicava tutto questo? Cose che oggi non vanno più di moda: autodeterminazione, scelta libera e consapevole, responsabilità, capacità di giudizio, personalità, solido uso dell’intelletto, coraggio, rifiuto della omologazione, indipendenza, individualità. Tutte cose che, guarda un po’, non sono propriamente la prima scelta dell’attuale sistema tecno-sanitario, globalista, euro-centrista, autoritario ed eugenetico. Occorreva sostituire una parola come “stoicismo”, “stoico”, “stoicamente”, con qualcosa che non richiamasse che una frazione impoverita di questo complesso sistema di rimandi, di percorsi figurali legati profondamente alla parola. Una parola densa di significato, che è portatrice di un’antica cultura, di un’intera epoca della grecità, nella quale alcuni di noi continuano, cocciutamente, ad identificarsi e che non solo vogliono mantenere e continuare ad amare, ma che vogliono, “incredibile dictu”, tramandare e diffondere alle nuove generazioni. E veniamo al “killer”, al sicario linguistico della parola “stoico”. Per sostituirla ed inceppare il percorso mentale e tutte le eredità sapienziali, culturali e di legame con il nostro passato (giacchè la memoria, proprio come in “1984” è un ostacolo all’indottrinamento) occorrerà individuare un termine che non rimandi minimamente ad un significato etico, personale, individuale, bensì a quella sorta di transumano tecnicismo procedurale e robotizzante, meccanicistico e privo di anima, digitalizzante e spersonalizzato che costituisce ormai il linguaggio del potere, della sua violenza intimidatoria, della sua ipocrisia doppiogiochista. Un termine che derivi, appunto, non dal mondo umano ma da quello tecnologico, in particolare dal mondo degli oggetti e della loro capacità resistiva alle sollecitazioni. Ebbene sì. La “resilienza”, come capacità di un metallo, di resistere a sollecitazioni di vario genere (termiche, meccaniche) fino ad arrivare al punto di rottura, è il termine ideale di riferimento per esprimere, in Neolingua, ciò che è ora il Potere a comandare e non più il nostro Demone etico interno, che ci sprona a seguire la nostra Coscienza. E’, semplicemente, il capovolgimento cognitivo dei significati: la resilienza presuppone, appunto, una sollecitazione esterna, non voluta dal soggetto, sopportata fino ai livelli estremi di tensione, fino al punto di rottura (quale sarà? Lo stanno testando…). Essa implica il fatto di essere sottoposti ad un “trattamento” (sperimentale o meno, volontario o meno), che dovrà essere comunque portato a termine. Non vi è più, qui, alcuna decisione autonoma, nulla di intimamente etico, nulla di individuale. Il trattamento, la sollecitazione, in sé, può essere di fatto un evento sociale sconvolgente, oppure un processo, più o meno lungo, come quello della graduale e costante sottrazione dei diritti. Il soggetto, in tali circostanze, ha perso qualsiasi indipendenza, qualsiasi autonomia, qualsiasi capacità impositiva: non è in grado di autodeterminarsi (altrimenti sceglierebbe di non sottoporsi a sollecitazioni che richiedano “resilienza”); egli è soggiogato dalla pressione (sociale, fisica, mentale, economica…) e non può che tentare di opporre una resistenza finalizzata alla sopportazione, alla convivenza con nuove forme di dolore, alla rassegnazione, all’impotenza appresa (il suicidio, qui, non è una scelta stoica, ma un accettabile effetto secondario o, addirittura, l’esito programmato di un meccanismo di selezione neodarwiniana: nella competizione vince il più adatto al sistema e gli altri soccombono). Qui possiamo vedere quali sottointesi e subcoscienti scenari cognitivi apra la parola. E’ bastato un “piano di Resilienza” per introdurre artatamente, subdolamente, un virus linguistico, il meccanismo di un vero e proprio hackeraggio mentale, esattamente nello stile delle grandi multinazionali del digitale, che lavorano con i Bot, con i Backdoors, con i Trojan: cambiare la parola per cambiare la mente, per cambiare percezioni e comportamenti. Questo è solamente un piccolo esempio, che deve poter rappresentare i molti altri “lemmi” di questo nuovo vocabolario del dominio mentale: parole che nascondono dietro di sé interi mondi di significato vengono eliminate da vocaboli neutralmente affettivi, semanticamente ridotti ed impoveriti, accuratamente scelti per indicare, con il loro significante, un unico percorso mentale, un’unica immagine, un unico metodo, un’unica realtà. A noi toccherà di rifiutare questi robot linguistici, di soffermarci nel dialogo per smascherarli, per ridicolizzarli, come nella questione della cosiddetta “educazione alla Legalità”. Non presuppone essa, forse, l’eliminazione del ben più antico termine di “Giustizia”? Sappiamo bene che la “Legalità” è stata sufficiente per le leggi razziali, quelle tedesche del 1933, e per ogni altro tipo di nefandezza, più o meno recente. Perché, allora, si è scelto, per la Scuola, proprio questo termine e non l’altro, universale ed incondizionato? Facciamoci, dunque, difensori del Bello, del Bene, della Virtù, della Conoscenza, della Temperanza, della Sapienza, del Coraggio, della Felicità (la Speranza ce l’hanno appena rubata): sono solo alcune delle tante parole dimenticate, che hanno bisogno di una nuova casa.

Print Friendly, PDF & Email

Abbonati alla rivista

Sovranità Popolare è un mensile, 32 pagine di articoli, foto, ricerche, analisi e idee. Puoi riceverlo comodamente a casa o dove preferisci. E' semplice, iscriviti qui.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*