a cura di Daniela Bezzi
Prefazione di Luisa Morgantini al libro Combattenti per la pace Palestinesi e israeliani insieme per la liberazione collettiva, Multimage 2024
Era il 2005, credo di ricordare nel mese di luglio, quando venni invitata da palestinesi e israeliani a partecipare a una della prime riunioni, ancora segrete, dei Combatants for Peace a Beit Jala, un villaggio nei pressi di Betlemme che entrambi avrebbero potuto raggiungere senza difficoltà. I checkpoint e il coprifuoco colpivano infatti tutta la Cisgiordania e impedivano i movimenti.
Si era verso la fine della seconda intifada, che era iniziata dopo il provocatorio gesto di Ariel Sharon, leader del partito Likud e contrario agli accordi di Oslo, di recarsi a Haram Al Sharif, la Spianata delle Moschee,1 per affermare che tutta Gerusalemme da est a ovest doveva considerarsi capitale dello Stato di Israele, contrario quindi a condividere Gerusalemme come capitale di due Stati.
Ricordo che Arafat implorò Ehud Barak, laburista e a quel tempo Primo Ministro, di impedire a Sharon la presenza sulla Spianata delle Moschee. La risposta fu la presenza di 1.800 soldati a proteggere Sharon e i suoi adepti. Le manifestazioni palestinesi, benché pacifiche, vennero represse brutalmente, mentre Hamas continuava a colpire i civili con le azioni suicide nei mercati, nelle pizzerie, sugli autobus, e anche forze come quelle di Fatah, con la sua ala dei Tanzim,2 scelsero la lotta armata, attaccando l’esercito occupante (e secondo la convenzione di Ginevra un paese occupato militarmente avrebbe il diritto di difendersi…).
Il risultato fu devastante per tutta la popolazione palestinese. Israele con la messa in atto dell’Operazione Scudo Difensivo tra fine marzo e inizio aprile 2002, con l’usuale disprezzo per ogni legalità internazionale, uccideva, arrestava e rioccupava la Cisgiordania e Gaza. La Muqata, il quartier generale dell’autorità nazionale palestinese e di Arafat, era stata quasi interamente demolita, tranne che per una piccola ala dove restava Arafat assediato. Ne uscì solo per morire a Parigi nel novembre del 2004.
Il campo profughi di Jenin, su ordine del primo ministro Ariel Sharon (che nel frattempo aveva vinto le elezioni) venne invaso dalle forze dell’esercito israeliano con 150 carri armati, veicoli corazzati, elicotteri da combattimento e caccia F-16, insieme a due battaglioni di fanteria, squadre di commando e dodici bulldozer corazzati. Nel campo, i militanti palestinesi opposero resistenza armata ma vennero quasi tutti uccisi. Sebbene in scala molto minore a Jenin (basta rileggere il rapporto di Amnesty) sono accadute nei giorni dell’invasione le stesse cose che succedono oggi a Gaza: uccisioni, utilizzo dei palestinesi come scudi umani, torture e trattamenti crudeli, inumani o degradanti dei detenuti; nessun accesso al cibo e all’acqua; ostruzione degli aiuti medici e umanitari; e la diffusa distruzione di proprietà e infrastrutture urbane. Nelle testimonianze di chi è entrato nel campo dopo che l’esercito aveva portato a termine la devastazione si racconta di come il personale dell’ospedale avvolgesse i cadaveri in teli bianchi solo per metterli tutti in fila sul selciato.
Il campo era stato isolato. Nessun giornalista o organizzazione umanitaria aveva potuto entrare durante l’aggressione. Jennifer Lowenstein,3 professoressa universitaria, attivista politica e giornalista indipendente, inviata in quel campo dal Centro per i Diritti Umani nella primavera del 2002, scrisse nel suo rapporto che “nessuno poteva entrare o uscire. Non volevano che si sapesse come i soldati avevano bruciato le foto di famiglia. Hanno urinato e defecato nelle pentole e nelle padelle della cucina. Hanno distrutto i giocattoli dei bambini e quando tutto è finito, un gruppo di loro ha riso e ha mangiato il gelato”.4 La stessa perversione che oggi mostrano i soldati dell’IDF a Gaza, con l’unica differenza che a Jenin sono state uccise 59 persone mentre a Gaza si sta commettendo un genocidio con l’obiettivo di cacciare i palestinesi dalla loro terra una volta per sempre. Ad oggi più di 37.000 persone sono state uccise di cui 14.000 bambini, e non sono numeri ma persone. Quanto a Gaza: è stata rasa al suolo, mentre la Cisgiordania è messa a ferro e fuoco dall’esercito e dai coloni, benché illegali e sempre più fanatici e messianici.
Il governo israeliano continuava la sua hasbara (propaganda) mostrandosi al mondo come l’unica vittima (mentre occupa militarmente e illegalmente i territori o quello che rimane della Palestina), e sostenendo che nella leadership palestinese non ci fossero interlocutori affidabili per la pace, mentre erano loro a non rispettare ogni regola delle legalità internazionale. Avevano già cominciato a costruire il muro, oggi lungo 720 chilometri, che non divide palestinesi e israeliani, ma si inserisce all’interno dei territori occupati palestinesi, annettendosi terra e risorse acquifere e lasciando interi villaggi senza terra da coltivare. Nei villaggi dove sorge il muro che abbatterà migliaia e migliaia di alberi d’olivo secolari, i palestinesi si organizzano nei comitati di lotta popolare nonviolenta, per opporsi alla costruzione del muro e al furto di terre. Nel luglio del 2004 la corte di Giustizia Internazionale dell’Aja ne ordina lo smantellamento considerandolo illegale perché costruito per la maggior parte su terra palestinese, ma senza alcun esito: Israele continua impunita ad espandere le colonie illegali.
E’ in questo contesto che si formano gruppi di palestinesi e israeliani che sostengono che gli interlocutori per la pace ci sono, e che è necessario trovare una soluzione alla politica di occupazione e colonizzazione della Palestina. Membri del Parents Cicles family Forum,5 organizzazione dei familiari delle vittime israeliane e palestinesi, si uniscono dicendo che l’occupazione uccide su entrambi i fronti, e che il dolore per la morte di un figlio è uguale per una madre palestinese o israeliana, mentre sostengono che la pace è possibile.
Nel 2004 si era formata Breaking the Silence per iniziativa di un buon numero di soldati israeliani che avevano deciso di uscire dall’omertà per denunciare le violazioni dei diritti dei palestinesi e le continue crudeltà commesse dai soldati per tenere soggiogata la popolazione. Il fondatore Yehuda Shaul aveva prestato servizio militare a Hebron, dove i coloni avevano espulso i palestinesi occupando interi settori della città vecchia. Sempre più giovani israeliani si rifiutavano di prestare servizio militare perché non volevano essere partecipi dell’oppressione, nè essere complici dell’occupazione militare. Alcuni di loro sono finiti in carcere. E non è solo la società civile a mobilitarsi, anche politici israeliani e palestinesi. Fra le figure di maggior spicco c’è il palestinese Yaser Abed Rabbo e l’israeliano Yossi Beilin che promuovono gli Accordi di Ginevra7 e presentano un piano di pace, per dimostrare che la pace è possibile.
Sono stata testimone e partecipe di tutte queste iniziative, dal 1999 al 2009. Eletta nel Parlamento Europeo ho portato a Bruxelles o a Strasburgo i rappresentanti di queste organizzazioni, compresa la Commissione Internazionale delle Donne di cui facevo parte insieme a personalità palestinesi, israeliane e internazionali. Anche i Combattenti per la Pace sono stati accolti a Bruxelles per raccontare la loro esperienza straordinaria e cercare di smuovere il Parlamento affinché agisse per una pace giusta in Palestina e Israele.
Ringrazio molto l’intelligenza e l’impegno di Pressenza nel presentare questa raccolta di testimonianze dei Combatants for Peace, forze sempre più minoritarie nella società israeliana, ma che proprio per questo devono essere conosciute e aiutate.
Fin dalla prima intifada ero impegnata con pacifisti sia palestinesi che israeliani, in un primo momento con le Donne in Nero israeliane, poi con i comitati delle donne palestinesi e con donne italiane con le quali avevamo costruito una rete contro la guerra e la violenza.
Con il movimento pacifista italiano nel 1991 abbiamo lanciato una catena umana che circondava le mura di Gerusalemme chiedendo il riconoscimento dell’Olp: hanno partecipato 32.000 persone tra palestinesi e israeliani, noi italiani eravamo 1.300.
In tutti questi anni ho costruito relazioni che sono parte della mia vita, molte di loro sono la mia famiglia. Con i Combatants for Peace per lunghi anni abbiamo fatto iniziative comuni qui in Italia e in Palestina. Ho partecipato ai loro primi incontri come quello di Beit Jala. Ero ospite di un amica a Sheik Jarrah, a Geruselemme est occupata, dove giovani ebrei di cittadinanza israeliana arrivati da poco tempo dagli Stati Uniti, fanatici, fondamentalisti messianici, attaccavano le case abitate dai palestinesi per cacciarli via, case costruite dall’UNRWA, l’organizzazione delle Nazioni Unite che fin dalla sua fondazione è stata osteggiata dai diversi governi israeliani.
Oggi più che mai, con il genocidio a Gaza, l’UNRWA è sotto attacco, cercano di liquidarla, perché ricorda in modo permanente la pulizia etnica cui è soggetta la popolazione palestinese, iniziata sin dal 1948 con la dichiarazione dello stato d’Israele, e riaffermata poi nel 1967 con l’occupazione militare israeliana dei territori palestinesi. Diverse case sono state requisite da altri coloni dopo lunghe battaglie legali e altre famiglie stanno per essere evacuate, con documenti artefatti da parte dei coloni ma legittimati dalla Corte di Giustizia Israeliana.
Determinata a raggiungere quella sera Beit Jala, il taxista, che era anche un amico, accettò di accompagnarmi, non senza esitazione. Nelle strade buie e deserte, gli aerei volavano sulle nostre teste e temevamo che qualche pattuglia ci fermasse. Arrivata a Beit Jala conobbi altri israeliani e palestinesi, conoscevo già Elik, Bassam, Sulaiman, Itamar e altri. Si discusse a lungo del come rendere pubblico l’iniziativa, di cosa scrivere nell’appello, quale nome dare al gruppo e tra le diverse proposte venne scelta Combatants for Peace. Io ero piuttosto restia rispetto a quella parola “combattenti” che apparteneva a un linguaggio militare, ma credo che fosse Itamar a far notare “siamo stati combattenti e nemici… adesso vogliamo esserlo per la pace.” Bassam Aramin ricorda sempre che i primi fondi da utilizzare per i trasporti, li avevo versati io stessa quella sera.8
Non sono stati facili i loro rapporti. La differenza delle loro condizioni era evidente anche solo nella libertà di movimento, e il loro discorso trovava oppositori sia in Israele che in Palestina. In Israele per la maggioranza, erano i traditori, gli ebrei che odiano gli ebrei. In Palestina, per molti palestinesi, erano i “normalizzatori”.
Un giorno siamo andati in un villaggio al nord vicino a Jenin, dove di fronte a qualche centinaio di palestinesi, internazionali e israeliani, Chen, un ex soldato israeliano iniziò a parlare chiedendo perdono e raccontando ciò di cui si era reso responsabile durante il suo servizio militare: incursioni nelle case, arresti, abusi e violenze. Mentre parlava, temevo che qualche palestinese si alzasse e lo aggredisse, e invece quando terminò ci fu un grande applauso e un ex prigioniero lo abbracciò ringraziandolo per aver chiesto perdono. Quando Abir la figlia di Bassam venne uccisa da un soldato israeliano all’uscita della scuola, i Combatants trovarono i fondi per creare un giardino per ricordare Abir: fu una cerimonia molto commovente.
Per qualche anno partecipai a parecchie manifestazioni e incontri dei Combatants, vennero anche in Italia, poi diradai la mia presenza, li incontravo a Ramallah o a Gerusalemme, molti se ne sono andati, nuovi sono arrivati e continuano ad esserci. Ogni tanto li incontro a Masafer Yatta dove Israele sta cercando di evacuare interi villaggi, per poter avere mano libera nell’addestramento dell’esercito. Nel giorno dell’anniversario della fondazione dello stato d’Israele e per la commemorazione della Nakba si riuniscono ad altri gruppi per raccontare l’altra storia, quella che Israele vuol tenere nascosta.
Nel 2005 la loro presenza fu dirompente. E oggi più che mai c’è bisogno di loro e di tutti quelli che si oppongono alla violenza e sono per una pace giusta e per l’autodeterminazione del popolo palestinese, libero da apartheid, colonizzazione e occupazione militare israeliana.
Grazie ancora a Pressenza per offrirci l’opportunità di conoscere almeno in parte questa sconosciuta storia di co-resistenza, di palestinesi e israeliani insieme.
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