Su i “Pilastri della Società”

“Credere al progresso non significa credere che un progresso ci sia già stato” affermava Kafka in uno dei suoi più noti aforismi ed è proprio in questa chiave, guardando al presente, che è possibile rileggere “I pilastri della società” l’opera con cui Ibsen, il padre della drammaturgia moderna, ha dato inizio alla fase “sociale” del suo teatro.

Nel testo, datato 1877, con un sintetico ma incisivo realismo Ibsen mette a nudo non solo le contraddizioni di una classe borghese il cui rigido adeguamento formale alle convenzioni sociali del tempo ne nascondeva l’ipocrisia e la falsità, ma anche la supina accettazione del ruolo di quella borghesia da parte di un tessuto sociale che dal quel potere imprenditoriale ed economico dipendeva.

Protagonista del dramma è il console Karsten Bernick, emblema del capitano d’industria, un “pilastro della società”, come si autodefinisce, che mentre opera, all’insaputa dei suoi concittadini, in modo che una tratta di una nuova linea ferroviaria si colleghi alla sua città, acquista a buon mercato i terreni su cui la tratta dovrà scorrere. A chi lo mette in guardia sull’impatto che la scoperta delle sue manovre potrebbe avere sulla sua reputazione risponde “É questo il punto. Col nome integerrimo che ho portato sinora, posso correre questo rischio, e una volta riuscita l’impresa, potrò dire ai miei concittadini: guardate quale rischio ho affrontato per il bene della società” in quanto “Che cosa sarebbe accaduto se non avessi agito segretamente? Tutti si sarebbero buttati sull’affare, disordinatamente, guastando e rovinando tutto. Escluso me, non c’è nessuno in città capace di condurre a termine un affare di questa portata”.

Valutazione cinica ma corretta, perché, quando nel prosieguo dell’azione drammatica, si trova costretto a rivelare ai suoi concittadini le modalità con cui ha acquisito ricchezza, potere sociale e la sua manovra per il controllo della tratta ferroviaria, gli basta blandirli con la possibilità di una partecipazione azionaria per ottenerne l’ammirazione.

Oggi dopo circa un secolo e mezzo in cui gli orizzonti economico-finanziari hanno superato i confini non solo cittadini ma anche nazionali per spostarsi su uno scenario globale e in cui la borghesia ha perso il suo ruolo propulsivo continuano a persistere pervicacemente i paradigmi e i modelli della cultura borghese, primo tra tutti l’accettazione del predominio politico di quanti si trovano in possesso di ricchezza mobiliare. Ibsen, stigmatizzando l’omologazione culturale di stampo piccolo-borghese e indicando, non senza retorica, ne “lo spirito di verità e di libertà” il vero pilastro della società, per estraneità alla categoria culturale neo-liberista non avrebbe potuto preconizzare che quelle stesse parole sarebbero state traslate da un sistema mediatico piegato ai mercati in assenza di regole e pubblico controllo.

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