di Luigi Monsellato
L’Europa quale la intendiamo oggi è frutto di una lunga e intricata serie di eventi. A partire da una sostanziale unità culturale comprovata dall’affinità della produzione artistica in località tra loro lontanissime come la Dordogna e gli Urali almeno fino al paleolitico, nel neolitico e nell’età del rame soprattutto nella sua parte orientale e centrale e più in generale lungo le rive orientali del Mediterraneo la Vecchia Europa, secondo la definizione di Marija Gimbutas. vede lo svilupparsi di un mondo complesso, multiforme, variegato, con migliaia di anni di tradizioni, usi e religioni che è svanito lasciando a mala pena un vago ricordo in quello che possiamo definire un processo di indoeuropeizzazione.
Le ricerche archeologiche hanno disseppellito molte testimonianze relative alla vita materiale, ai commerci e all’arte della Vecchia Europa che già nei primi anni del V millennio a.C. vide la formazione di centri urbani situati in luoghi facilmente accessibili, sulle rive di laghi, nelle valli dei fiumi o su piccole alture ma in ogni caso privi di fortificazioni difensive. I reperti archeologici delineano culture essenzialmente pacifiche, economie agricole e società in cui anche il rapporto tra i sessi sarebbe stato paritario, come si evince dalle sepolture che non mostrano significative differenze. Non abbiamo testimonianze dirette riguardo alle loro credenze religiose per quanto la presenza di numerosi templi con grandi depositi di oggetti preziosi, in cui la maggioranza dei simboli sono associati alla terra umida, alle acque vivificatrici, agli organi femminili, hanno indotto Marija Gimbutas a proporre di definire la civiltà dell’Europa neolitica come il mondo della Grande Madre, delineando i tratti di una cultura matriarcale di cui non abbiamo testimoniane linguistiche se non nel Basco, l’unica lingua di origine preindoeuropea sopravvissuta al processo di indoeuropeizzazione che ha fatto seguito all’espansione degli indoeuropei in tutta la Vecchia Europa ad eccezione naturalmente delle regioni in cui non riuscirono mai a penetrare in cui si trovano principalmente popolazioni di origine ugrofinnica.
L’ipotesi più accreditata è che il focolare ancestrale degli indoeuropei sia da collocarsi in un’area a nord del mar Nero, nelle steppe a sud della Russia, in cui le ricerche archeologiche hanno portato alla luce i resti di un habitat e di una cultura materiale ampiamente corrispondenti al comune bagaglio linguistico. La lingua d’origine si può ricostruire con approssimazione, perché sebbene le lingue si evolvono e cambiano, i mutamenti seguono un ordine regolare e per quanto riguarda la fonetica seguono pattern determinati. Il vocabolario indoeuropeo indica che coloro che parlavano questa lingua avevano raggiunto un livello culturale generale della tarda età della pietra, vi sono parole di comune origine che suggeriscono come le loro armi primitive e i primitivi strumenti fossero fatti di pietra, così come indica che fossero un popolo di pastori e allevatori, mentre il vocabolario agricolo è molto scarso e non permette di pensare che tale attività occupasse un ruolo preponderante nella loro economia. Il Delbruck ha dimostrato che i termini che indicano padre, madre, fratello, sorella, figlio, figlia e nipote sono originali, così come i termini vedova e nuora ma non genero, possiamo dedurne che la loro società fosse di tipo patriarcale.
La data in cui tale lingua era parlata si può solo ipotizzare, comunque è presumibile che si debba risalire al VI millennio A.C. per trovare l’indoeuropeo ancora sotto forma di unità linguistica, e la cultura originale a cui riferirsi sembra essere quella Kurgan, espressione di una popolazione che conduceva una vita seminomade, abitava in villaggi, costituiti da abitazioni semi-sotterranee di struttura e costruzione molto semplici, ed era in grado di creare alture fortificate. La condizione di semi-nomadismo avrebbe favorito una loro lenta penetrazione verso l’Europa come verso l’Asia, penetrazione che ebbe tuttavia momenti di alta intensità archeologicamente individuabili. Già nel V millennio A.C. ebbe luogo una prima espansione nella zona danubiana e balcanica, nel IV millennio penetrarono in Asia e nell’Europa centrale, nel III si diressero verso l’Egeo e l’Adriatico ed infine nel II verso l’Europa occidentale e centro-orientale, favoriti in questo dal fatto che già a partire dal 1500 a.C. avevano perfezionato la tecnica per governare il cavallo mediante il morso, che avrebbe permesso di montare e controllare l’animale e contemporaneamente combattere. Divennero così dei nomadi a cavallo. e la mobilità e la velocità negli spostamenti che avevano ottenuto grazie alla nuova tecnica fece di loro una vera potenza militare, che si impose su la gran parte del continente europeo.
Secondo uno schema che si è ripetuto innumerevoli volte, i vincitori imposero la propria lingua, la propria organizzazione sociale, la propria religione e i propri costumi. Questo non comportò tuttavia il genocidio della popolazione preesistente ma un processo di mescolamento tra le stirpi e una sintesi culturale che permise la sopravvivenza di qualcosa della Vecchia Europa, come possiamo desumere analizzando i miti di quelle nuove popolazioni. I miti non si possono definire solo favole in quanto avevano una funzione morale e illustravano le conseguenze negative di azioni antisociali e univano la tribù in una unica fede. Se ad esempio esaminiamo la mitologia norrena, tenendo conto del fatto che la comunanza di lingua implica un minimum abbastanza esteso di comunanza nelle rappresentazioni e nel modo in cui si organizzano, insomma nell’ideologia di cui la religione è rimasta per lungo tempo l’espressione principale, troviamo che le loro divinità erano suddivise in Asi e Vani e che nella realtà religiosa essi vivevano in perfetto accordo, ma che questa concordia, fondata su una lucida analisi dei desideri umani, non era esistita da sempre. Dice la leggenda che in un passato lontano, i due gruppi divini erano vissuti separati e avevano sostenuto una dura guerra a conclusione della quale i più ragguardevoli tra i Vani erano stati associati agli Asi, mentre il resto del loro popolo sussisteva da qualche parte, al di fuori dell’obbligo e delle cure del culto. Questa associazione è spesso espressa in una enumerazione a tre termini che mette in risalto una evidente gerarchia in cui prevalgono gli Asi come superiori ai Vani “ Odhinn, Thorr, Freyr “, in cui a volte il dio Freyr, l’unico della stirpe dei Vani, cede il posto a Niordhr e molto raramente alla dea Freyja.
I due Asi più ragguardevoli Odhinn e Thorr sono rispettivamente il capo della società divina, patrono degli eroi vivi e morti, e il dio del martello, il nemico dei giganti a cui il suo furore a volte lo rende simile, mentre i Vani sono prima di tutto dei dispensatori di ricchezze, e sono legati topograficamente e economicamente alla terra che produce le messi nel caso di Freyr, al mare che arricchisce i naviganti nel caso di Njordhr e nel caso di Freyja alla fecondità e al piacere. Si presenta così nei miti la tripartizione funzionale propria dell’ideologia indoeuropea, al primo posto la sovranità, intesa come funzione sacrale e giuridica, al secondo posto la funzione guerriera e al terzo la funzione produttiva, tripartizione funzionale e gerarchia di valori che nei secoli successivi è andata espandendosi fino a diventare fondamento della cultura dell’intero Occidente.
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