di Sergio Bagnasco
Quando parliamo di regionalismo, dobbiamo tener presente il contesto storico.
In Assemblea costituente prevalse uno spirito regionalista al punto che tra i principi fondamentali troviamo l’art. 5 che, pur affermando l’unitarietà e l’indivisibilità della Repubblica, promuove le autonomie locali e il decentramento amministrativo, adeguando la legislazione statale alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
Il sistema di autonomia differenziata esiste da sempre nella nostra Repubblica perché la Costituzione ha sin dalle origini previsto le Regioni a Statuto Speciale e le Regioni a Statuto Ordinario. Alle Regioni era riconosciuta la potestà legislativa su tante materie tra cui l’assistenza sanitaria e ospedaliera, il turismo, l’agricoltura … Si trattava, in ogni caso, di potestà concorrente, nel senso che la Regione poteva su determinate materie legiferare, ma pur sempre nel rispetto dei principi fondamentali dettati dalla legge statale.
La Repubblica italiana rappresentava un unicum tra lo stato unitario e lo stato federale, poi però la politica ha seguito una strada centralista e quel regionalismo è rimasto seppellito per decenni.
Il regionalismo in Italia ha sempre avuto momenti di slancio e lunghi momenti di sonno profondo. Pensate alle regioni a statuto ordinario che sono state istituite solo nel 1970, sebbene previste dalla Costituzione del 1947.
Quando nel 2001 si arrivò alla riforma del Titolo V l’argomento principale utilizzato da tutti i leader del centro-sinistra fu che quella riforma “federale dello Stato” avrebbe creato le condizioni affinché le regioni a statuto ordinario potessero avvicinarsi a quelle a statuto speciale.
In ogni caso, la riforma confermata nel 2001 dal voto referendario rimase lettera morta per parecchi anni perché il centro-destra, che nel 2001 vinse le elezioni, s’impegnò immediatamente in una nuova riforma costituzionale che prevedeva anche la riforma dell’appena riformato Titolo V e l’abrogazione del terzo comma dell’art. 116, che è alla base delle richieste di autonomia differenziata.
La riforma del 2001 ha introdotto nell’art. 116 la possibilità per le regioni a statuto ordinario di richiedere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” su tutte le numerose materie di legislazione concorrente indicate al 3° comma dell’art. 117 e persino alcune competenze esclusive dello Stato indicate al 2° comma dell’art. 117.
La riforma costituzionale del Titolo V aveva una forte finalità politica (tentare di evitare il ritorno della Lega nella coalizione di Berlusconi) e ogni altro aspetto passò in secondo piano, approdando così a una riforma scritta male che provocò per molti anni un intenso contenzioso tra Stato e Regioni.
In quella riforma mancava la previsione di leggi attuative, con la conseguenza che anche gli aspetti positivi di quella riforma restarono lettera morta, come spesso già avvenuto in passato.
La riforma del Titolo V ha avuto il merito di costituzionalizzare il principio che spetta allo Stato definire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Ha persino rafforzato il ruolo di garante dello Stato introducendo nell’art 120 il potere del Governo di sostituirsi a organi delle regioni per tutelare i livelli essenziali delle prestazioni o quando c’è pericolo per la sicurezza e l’incolumità pubblica. Ha istituito il fondo perequativo statale per i territori con minore capacità fiscale per abitante, in aggiunta alla previsione che lo Stato può destinare risorse aggiuntive in favore di determinati territori per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali … (art. 119).
Però, in assenza della previsione di leggi attuative tutto ciò rischiava di restare lettera morta. In effetti bisognerà attendere dieci anni perché si cominciasse a definire i livelli essenziali delle prestazioni.
Pensate all’interruzione volontaria della gravidanza che è inserita nelle prestazioni essenziali eppure in tante regioni è sostanzialmente impossibile ottenere la prestazione, nell’indifferenza dello Stato che non interviene e non garantisce ciò che dovrebbe garantire laddove la regione è latitante.
Il nuovo art. 117 Cost. amplia le materie su cui la potestà legislativa spetta alle regioni, ad eccezione dei principi fondamentali che competono allo Stato. Necessario sarebbe stato stabilire i confini, diversamente non si comprende cosa significhi che le regioni possono chiedere forme particolari di autonomia su materie che sono già di competenza legislativa delle regioni.
Allo stesso modo non si comprende cosa significhi assegnare allo Stato la competenza di scrivere le norme generali sull’istruzione e allo stesso tempo prevedere che le regioni possano chiedere forme di autonomia sulle norme generali sull’istruzione, se non si definiscono quali norme generali possano essere trasferite alla Regione. Così si rischia di creare disomogeneità su un aspetto di vitale importanza com’è l’istruzione. Allo stesso modo, bisognerebbe capire cosa significa affermare che definire le norme generali sull’istruzione è una competenza dello Stato quando all’art 33 si afferma che spetta alla Repubblica dettare le norme generali sull’istruzione. Lo Stato non è la Repubblica ma solo una parte costitutiva della Repubblica (art. 114 Cost.).
E’ evidente che manca una legge quadro per applicare quanto previsto all’art. 116 e manca un raccordo tra il Titolo V e la prima parte della Costituzione, quindi il rischio di conflittualità e disgregazione è implicito nel testo costituzionale e sanare questo rischio è compito del legislatore nazionale che per due decenni è stato inerte.
Mi pare, dunque, evidente che chiunque si opponga all’attuazione di quanto previsto al terzo comma dell’art. 116 debba avere come bersaglio il Governo e il Parlamento, gli unici che hanno il potere di fermare o ridimensionare le richieste delle Regioni.
Difficile spostare l’opinione pubblica affermando che attuare quanto previsto dall’art. 116 della Cost. sarebbe eversivo o una minaccia all’unità repubblicana.
Se quanto previsto dalla Costituzione è eversivo, significa che va modificata la Costituzione e ogni altro discorso diventa irrilevante.
Se le richieste delle regioni, invece, eccedono i limiti imposti dalla costituzione, allora spetta al Governo e al Parlamento intervenire.
Se a distanza di due decenni lo squilibrio e il divario tra nord e sud è aumentato ciò non è conseguenza dell’art 116, che allo stato attuale non è ancora stato attivato, ma all’inerzia dei governi e dei parlamenti che si sono succeduti in questi due decenni.
Va, dunque, richiamato il Governo e il Parlamento alle proprie responsabilità affinché intervenga per sanare i limiti della riforma del 2001 e dare efficienza allo Stato oppure l’alternativa è tra tornare allo stato centralista o fare un salto verso lo stato federale, due ipotesi che allo stato attuale mi appaiono nefaste.
Evidente che il binomio Stato-Regioni non funziona anche per responsabilità dello Stato che non fa la sua parte. E finché lo Stato non sa garantire ciò che deve garantire, non c’è spazio per alcuna autonomia differenziata.
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