di Franz Ferré
Una delle misure meno pubblicizzate (e, come si vedrà, con ragione, dal loro punto di vista) del Decreto Legge n.4 del 27 gennaio 2022, chiamato “Sostegni-ter” è stata quella contenuta nell’articolo 28, che, dietro il paravento di “avversare le frodi carosello e i fenomeni di riciclaggio” (citando il sito www.Altalex.com) limita a uno il numero di cessioni possibili dei crediti di imposta derivanti da lavori edilizi rientranti nelle agevolazioni previste dal precedente “Decreto Rilancio”, ovvero il DL 34/2020.
Detta così, la cosa può sembrare un tecnicismo un po’ astruso, interessante, magari, per un pugno di addetti ai lavori, ma non è così. Il “Decreto Rilancio”, infatti, stabiliva, tra le altre cose, la possibilità di effettuare una serie di interventi di ristrutturazione edilizia sulle proprie abitazioni (inclusi i condomìni) finalizzati per lo più al miglioramento dell’efficienza energetica degli immobili, per i quali il committente poteva ottenere, alternativamente, uno sconto in fattura del 50% oppure una detrazione fiscale addirittura superiore al valore degli interventi stessi (il famoso “Bonus 110%”). I provvedimenti in parola erano stati emanati nella prima fase dell’emergenza COVID, a compensazione delle chiusure e dei fermi generalizzati che avevano colpito l’economia nazionale, in particolare il settore dell’edilizia. In entrambi i casi (sconto in fattura o Bonus 110%), chi otteneva la detrazione fiscale (rispettivamente colui che eseguiva i lavori oppure il committente stesso) poteva tenerla per sé e compensarla con le tasse che avrebbe dovuto pagare nello stesso anno, oppure cedere il credito fiscale a terzi, in modo da incassare subito la cifra attesa (decurtata del costo della cessione). Ovviamente la cessione era stata fin da subito la modalità preferita di trattamento dei crediti di imposta così ottenuti, sia perché spesso il creditore originario (azienda, condominio o privato che fosse) non riteneva di maturare debiti fiscali nell’anno sufficientemente consistenti da poterli compensare con i crediti, sia per il semplice fatto di preferire un incasso immediato, seppure decurtato dei costi della cessione a terzi del credito, ad uno differito (per un privato, il credito di imposta del 110% era compensabile in dieci anni!).
Un fattore decisivo nel successo della misura era costituito dalla possibilità per il primo cessionario di cedere ulteriormente il credito a terzi, per le stesse ragioni sopra evidenziate, alle quali si aggiungeva, in caso di credito in mano alle aziende che effettuavano i lavori, la possibilità di finanziare per questa via i lavori stessi oggetto del Bonus, con costi inferiori ad un “normale” scoperto di conto bancario. La cessione multipla aveva finito per generare, nei mesi successivi all’entrata in vigore del provvedimento, un vero e proprio mercato secondario delle cessioni di crediti di imposta. Lo schema riportato dall’ottimo Giuseppe Liturri sul quotidiano “LaVerità” del 30 gennaio (basato sui dati ENEA) quantifica in 17,8 miliardi di euro le detrazioni generate fino a dicembre 2021 grazie al Decreto Rilancio” e messe in circolazione tramite la cessione multipla dei crediti. Tali crediti risultavano in grandissima parte liquidabili nel breve, poiché il meccanismo della cessione multipla consentiva alle cessioni di trovare sempre, alla fine, un acquirente “capiente”, cioè in grado di compensarle con i propri debiti fiscali del periodo. Era proprio questa possibilità a renderle convenienti ed appetibili, aprendo quindi le porte a tutta una serie di lavori che, in misura crescente via via che il provvedimento veniva conosciuto e “metabolizzato” dai soggetti beneficiari (in particolare dai condomìni), avevano finito per generare un notevole giro di affari per le imprese edili e un altrettanto notevole numero di posti di lavoro. In pratica: un successo, se visto con gli occhi della gente “normale” come noi.
Ma per qualcuno, evidentemente, non lo era.
L’eliminazione della possibilità della cessione multipla, infatti, blocca sul nascere la catena dei soggetti potenziali beneficiari, limitando al primo cessionario la possibilità di ricessione. Di conseguenza, solo coloro (pochi) che presumono di avere debiti fiscali nell’anno superiori all’importo dei crediti saranno in grado di comprare questi crediti, il che renderà molto meno diffuso l’uso dello strumento, riducendo drasticamente gli interventi di manutenzione che avranno luogo nei prossimi mesi. La domanda, come diceva quel tale, sorge spontanea: perché?
Come detto, la motivazione ufficiale contenuta nella relazione tecnica a latere del provvedimento (come riportata da Liturri nel citato articolo), sta nel fermare “la catena di cessioni che – come riscontrato ad esito dell’esperienza operativa maturata dall’Amministrazione finanziaria – mira a dissimulare l’origine effettiva dei crediti, invero esistenti, con l’intento di giungere alla monetizzazione degli stessi ed alla successiva distrazione della provvista finanziaria così ottenuta”. Sono i casi in cui un soggetto (di solito non bancario) acquista un credito inesistente, la cui origine poi va perdendosi sempre più man mano che ci si allontana dalla prima cessione, rendendo sempre più difficile risalire alla frode iniziale. Tale meccanismo funziona meglio – come detto – se i cessionari non sono banche, che, essendo tenute alle verifiche antiriciclaggio sui loro clienti, più facilmente potrebbero accorgersi del problema. Per questo è più che corretto quello che sostiene Liturri, cioè che, se si fosse voluto intervenire sul problema, sarebbe bastato specificare che il cessionario dal secondo passaggio in poi avrebbe dovuto essere per forza un intermediario. Ma evidentemente il problema era un altro, e, come ben spiegato nell’articolo, nasce ancora una volta a Bruxelles. O meglio, erano due.
Il primo lo spiega bene ancora Liturri, e consiste nel fatto che, se i crediti di imposta così concessi finiscono per trovare sempre un acquirente “capiente”, alla fine lo Stato dovrà davvero sborsare quelle cifre e il credito, secondo le regole contabili dell’UE, entra quindi per intero nel calcolo del sempre esecrabile “debito pubblico” che Bruxelles non ammette per definizione (le regole di bilancio dei vari Fiscal Compact, Patto di Stabilità etc, lo ricordiamo, sono solo sospese causa Covid, non abolite). E il Governo, fa notare giustamente Liturri ha “eseguito gli ordini di Bruxelles” mostrandosi “più realista del re”.
Il secondo motivo è più sottile e, forse, può ricondurre il “niet” dell’UE non solo alle rigidità ideologiche in tema di bilancio pubblico, ma anche al fatto che, come detto, le cessioni multiple generavano una sorta di circuito monetario parallelo, alimentato dall’enorme massa di debiti che lo Stato ha verso i propri cittadini e indipendente da BCE. In fondo, cosa erano i Minibot proposti anni fa da Claudio Borghi (ed aborriti da tutti gli “euro-maniaci” come blasfemi) se non titoli di credito di piccolo taglio emessi dallo Stato a fronte dei propri debiti verso i cittadini? E quale era stato uno dei principali motivi del fallimento delle resistenze di Atene alle pressioni della Troika ai tempi del referendum del 2015 se non la mancanza di una moneta alternativa con cui supplire alla sicura chiusura dei bancomat e del circuito finanziario in euro in caso di Grexit?
17,8 miliardi di Euro non sono certo sufficienti a costituire una moneta parallela, ma la prudenza non è mai troppa, si saranno detti a Bruxelles. L’Euro sarà anche eterno e irreversibile, ma non si sa mai. Sopire e stroncare, stroncare e sopire, specialmente quando ci siamo di mezzo noi italiani, e fa niente se nel frattempo tutto va rotoli. Anche falliti, ci vogliono nell’Euro, per spolparci meglio.
Grazie