Il gioco dei tre colori

Gamificazione e pensiero magico nel governo dell’epidemia

1. Introduzione: il Gioco dei tre colori

Dal 3 novembre la narrazione dello spettacolo dell’emergenza Covid-19 si è arricchita di un elemento ludico-agonistico, che ha assunto centralità nella narrazione mediatica della pandemia: con la puntualità di un programma televisivo di successo, ogni venerdì arriva il momento in cui si dischiudono vincitori e perdenti al Gioco dei tre colori, quel peculiare format nel quale si è deciso di inserire la comunicazione e l’organizzazione del contenimento dell’epidemia durante la Seconda Ondata.

Con la definizione tutta mediatica delle tre fasce di rischio regionale secondo colori (giallo, arancione e rosso; definizioni assenti nel testo dei decreti governativi), a dominare è la costruzione dell’effetto di suspence riguardo a quale regione passerà da una fascia di rischio all’altra, poi lo scioglimento di questa suspence con l’esultanza o le recriminazioni delle varie parti sociali e politiche di fronte alla proclamazione delle nuove fasce di rischio. Un format che garantisce una copertura mediatica estesa per gran parte della settimana, e che ricorda, nel suo scheletro, quello del gioco a premi, e in parte quello del commento sportivo. La continua innovazione del format, con l’aggiunta di nuovi premi (la “zona bianca”) e nuove penalità (la “zona arancione rafforzata”), aggiunge ulteriore complessità e ne garantisce il continuo rinnovamento, stante il quotidiano raffronto con la realtà di un’epidemia che non rientra mai sotto controllo, nella quale il format corre il rischio di deteriorarsi troppo in fretta.

L’obiettivo del gioco è sempre l’”appiattimento della curva dei contagi”, e viene perseguito attraverso lo stesso set ristretto di azioni predefinite che i partecipanti (l’intera cittadinanza) devono eseguire sin da marzo 2020: restare a casa, indossare mascherine e guanti, rispettare il “distanziamento sociale”, igienizzare spesso le mani, evitare gli “assembramenti”, rispettare la chiusura di determinati spazi pubblici e privati, seguire i protocolli di sicurezza aziendale, ecc. Si mantiene così, come regola principale del Gioco dei tre colori, la correlazione tra questo set di azioni predefinite e il numero quotidiano dei casi registrati dai tamponi, dei ricoveri, dei decessi, il numero di persone ricoverate nei reparti di area medica, nelle terapie intensive, e così via. Attraverso l’esposizione pubblica dell’indice Rt, e dei ventuno indicatori scelti dal governo per monitorare l’andamento dell’epidemia, si definisce così in termini “oggettivi” e strettamente performativi la qualità del comportamento della cittadinanza, ed è in questa cornice di senso che i continui incitamenti a “fare meglio”, la promozione del “comportamento virtuoso” della cittadinanza, o le reprimende contro “gli irresponsabili”, sono comprensibili e compresi.

L’adesione allo spazio agonistico del Gioco dei tre colori mette implicitamente le regioni in competizione le une con le altre, aiutando a trasformare in senso comune l’idea che sia davvero un’azione collettiva di “rispetto delle regole” a produrre l’effetto del miglioramento dei dati dell’epidemia. La reazione dei presidenti di regione alle varie “promozioni” o “declassamenti”, le reazioni delle loro opposizioni politiche su scala regionale, e tutta la canea del dibattito politico, contribuiscono a dotare il Gioco dei tre colori di quello spazio di commento partigiano, in grado di solleticare la partecipazione emotiva della popolazione, che è già elemento fondamentale della cronaca sportiva, e in particolare di quella calcistica.

Le regole, in questo contesto (esattamente come nel calcio), restano completamente al di fuori dello spazio del discorso pubblico, ciò che conta è la risoluzione del gioco attraverso la proclamazione delle fasce di rischio. Ciò che si contesta, al più, è la liceità dell’inserimento in una o l’altra fascia di rischio, con accenti simili a quelli con cui si contesta il fischio di un fallo di rigore da parte di un arbitro di calcio.

A gennaio, in Sardegna, si è consumato lo psicodramma della “retrocessione” alla zona arancione. L’essere “zona gialla” era diventato una sorta di elemento di orgoglio regionalistico (per definizione subalterno): la Sardegna primeggiava nel Gioco dei tre colori. Il comportamento della stampa sarda, che ha dato corda alle ridicole iniziative della Regione Sardegna, come quella del ricorso al TAR, ha mantenuto per una settimana una suspence artificiale sulla possibilità inesistente che il Governo revocasse la “zona arancione” prima delle due settimane previste dalla legge. In questo titolo del 30 gennaio dell’Unione Sarda, viene definita “beffa”, con termine preso di peso dal linguaggio ludico-sportivo, dal mondo della sfida e dell’aleatorietà, quella che era la ovvia applicazione di un articolo di legge. Il paragone con la Lombardia, che entrava in “zona gialla”, è parte di quel meccanismo di concorrenza agonistica tra regioni su cui si è retto il meccanismo narrativo del Gioco dei tre colori: per settimane, nonostante il disastro sanitario evidente, il fatto che la Sardegna rimanesse “zona gialla”, mentre la Lombardia e altre regioni ricche si dibattevano tra “zona rossa” e “zona arancione”, costituiva una sorta di immaginaria rivincita della Sardegna, affine a quella di un trionfo sportivo. La Lombardia inoltre, a metà gennaio era riuscita ad ottenere un’eccezione alla legge, ritornando in “zona arancione” dopo una sola settimana di “zona rossa”, grazie a una rettifica di dati errati forniti dalla regione (questa la versione ufficiale, che renderebbe il precedente inapplicabile al caso sardo. Va comunque registrato il contesto di scarsa trasparenza in cui si è svolta tutta la vicenda). Ad aggiungere sale al senso di rivincita, erano state le finte schermaglie estive sul turismo lombardo, l’evidente nesso di causalità tra l’apertura indiscriminata al turismo di massa in Gallura (proveniente in maniera preponderante dalla Lombardia) e la partenza dell’epidemia in Sardegna, la rappresentazione da parte dei grossi giornali a tiratura nazionale della Sardegna come “isola infetta” tra fine agosto e inizio settembre. Per queste ragioni, nel contesto ludico-agonistico del Gioco dei tre colori, il capovolgimento di classifica evocato in questo titolo di giornale risulta effettivamente una beffa. Tuttavia, è evidente che siamo ben lontani dal parlare seriamente di politica sanitaria.
L’8 febbraio al ritorno della Sardegna in “zona gialla”, la Confcommercio invitava la popolazione a “comportarsi bene”, rispettando le regole, dalle pagine dell’Unione Sarda. Il 19 marzo, lo stesso sindacato reagiva così all’uscita della Sardegna dalla “zona bianca”: “…per colpa di qualche sciagurato – e del mancato controllo da parte di chi doveva – un’intera isola virtuosa paga un prezzo troppo salato” (link qui).
Il provvedimento governativo con cui la Sardegna perde la “zona bianca” dal 22 marzo viene passato alla moviola. Il concetto di questo articolo del 20 marzo dell’Unione Sarda, potrebbe essere riscritto comodamente così: “l’arbitro ha fischiato un rigore che non c’era”. Si contesta l’interpretazione dell’azione, ma sempre all’interno del regolamento. La proposta di “rivedere i criteri” dell’assessore Nieddu non riguarda la gestione assurda delle politiche di contenimento dell’epidemia, ma il set di indicatori con cui si sancisce l’ingresso in una o l’altra fascia di rischio; il Gioco dei tre colori non è contestato.

2. Pensiero magico: la correlazione arbitraria tra “rispetto delle regole” e andamento dell’epidemia.

In realtà non è chiaro sulla base di quali dati scientifici siano prese le decisioni volte a controllare la diffusione dell’epidemia, le misure di contenimento che sostanziano le varie fasce di rischio. Né, come vedremo meglio più avanti, vi è chiarezza sui dati forniti per il monitoraggio della situazione sanitaria, sulla cui trasparenza da tempo è in corso una importante campagna pubblica che coinvolge decine di organizzazioni scientifiche e della società civile, sin’ora completamente snobbate dai governi in carica. L’Italia non si è mai dotata di un set di dati epidemiologici abbastanza sensibile da riconoscere in maniera affidabile gli spazi statisticamente più pericolosi, dal punto di vista del contagio, o da motivare solidamente molte delle misure di mitigazione adottate (per esempio riguardo alle chiusure di alcuni spazi, piuttosto che altri, o alle chiusure in determinati orari, piuttosto che altri). Né ci si è dotati di un sistema per verificare l’impatto delle singole decisioni prese sulla diffusione dell’epidemia. Così, anche a seguito del rallentamento dei contagi, non si capisce precisamente cosa abbia funzionato e cosa no, e lo strumento principe di governo dell’epidemia rimane il freno d’emergenza del lockdown: la temutissima “zona rossa”.

In un contesto di totale adesione acritica a qualunque provvedimento posto in campo con lo scopo dichiarato di contenere l’epidemia (compresi i più assurdi e contraddittori, tipo l’incomprensibile apertura al trasferimento nelle seconde case anche dalle “zone rosse”), l’andamento dell’epidemia viene subordinato direttamente al “rispetto delle regole”. Di qui i riferimenti moralistici alle regioni “virtuose” in quanto meno colpite dall’epidemia, o i continui richiami dei rappresentanti politici al nesso causale tra i dati forniti sui contagi e il “rispetto delle regole” dei cittadini. Lo scivolamento di senso è piuttosto chiaro: dato per certo qualcosa che certo non è (ovvero l’efficacia totale e comprovata delle misure di contenimento predisposte dalle autorità), il contagio diventa responsabilità degli individui. Ammalarsi, in sostanza, diviene una colpa. Non ammalarsi, una virtù. Così, attraverso la costruzione dell’ambiente di gioco, viene a scomparire ogni responsabilità politica ed amministrativa riguardo al disastro sanitario in corso, che è implicitamente, senza discussione, scaricato in toto sulle spalle della popolazione. Inserito nel perimetro agonistico e performativo del Gioco dei tre colori, il discorso sulla pandemia diventa un discorso sulla capacità collettiva di eseguire le “misure di contenimento”, escludendo qualsiasi altro fattore dal contesto, a partire dai fattori legati al funzionamento del Sistema Sanitario Nazionale.

Eppure basta guardare ai dati di fatto: non vi è alcuno studio che dimostri una qualsiasi diversità di comportamento tra sardi e lombardi di fronte alle misure di contenimento dell’epidemia, e che pertanto abbia motivato in questa maniera la “zona bianca”, da un lato, e la “zona rossa” dall’altro. Tutti i discorsi sul “comportamento irresponsabile” di questo o quell’altro attore sociale come fonte del peggioramento dell’epidemia (in particolare i giovani, vero capro espiatorio della paura collettiva, dalle prime riaperture di maggio 2020 a oggi, indipendentemente dall’andamento dell’epidemia), o sui “comportamenti responsabili” come fonte del miglioramento dell’epidemia, non risultano essere basati su alcun dato attendibile. La pretesa che la causa dei cicli dell’epidemia risieda nella adesione alle regole da parte della popolazione, è attualmente puro pensiero magico.

Forse, invece, sarebbe il caso di guardare ad alcuni dati geografici palesi, che segnano in maniera chiara le differenze tra regioni italiane, e probabilmente meglio potrebbero correlarsi ai rispettivi andamenti dell’epidemia: quantità e densità della popolazione, interconnessione e flussi pendolari, quantità e qualità della forza lavoro, densità degli spazi abitativi, densità degli spazi di lavoro, densità nel trasporto pubblico, ecc. Oppure si potrebbe entrare nel merito dei vari protocolli adottati per contenere l’epidemia, e valutarne innanzitutto l’applicabilità nelle condizioni della quotidianità (nei trasporti pubblici come nei luoghi di lavoro, per fare l’esempio di due spazi spariti dal discorso pubblico in questi ultimi mesi). Queste sono solo alcune delle variabili indipendenti dal singolo comportamento individuale, e dalle attuali misure prese per disciplinarlo, che possono motivare il differente andamento dell’epidemia nelle varie regioni. La pretesa che i sardi siano “più virtuosi” dei lombardi è solo una emerita sciocchezza, che tratta la proclamazione delle fasce di rischio come un giudizio di Dio.

Per il presidente della regione Sardegna Christian Solinas la “zona bianca” è “un grande risultato conquistato da tutti i sardi”. Un’unica grande squadra vincente al Gioco dei tre colori. Notare anche come la “zona bianca” sia definita “riconoscimento” (laddove a rigore si tratterebbe di un atto di politica sanitaria!), attestando la piena e irriflessa adesione al sistema di ricompense e penalità che caratterizza il Gioco dei tre colori. La zona bianca perde la propria caratteristica di provvedimento governativo, cioè di atto arbitrario, conseguente anche ai dati ufficiali sull’andamento dell’epidemia, per diventare un ambito premio raggiunto attivamente e con impegno dai sardi, in un contesto di senso prettamente agonistico. Basta volerlo, insomma, e non ci si ammalerà: puro pensiero magico.
Lo stesso presidente Solinas, d’altra parte, è quello che il 21 ottobre, mentre montava l’emergenza sanitaria che avrebbe disarticolato il sistema sanitario sardo per tutto l’autunno, e da cui ancora non si è ripreso, si esprimeva così: “…le catene di contagio si moltiplicano esponenzialmente perché troppi hanno abbassato la guardia e stanno sottovalutando la portata del fenomeno tanto che il semplice appello al buon senso ed alla responsabilità nell’osservanza delle buone pratiche (come distanziamento personale, divieto di assembramento, igiene delle mani e uso della mascherina) sembrano non essere sufficienti” (link qui).
Anche l’opposizione nel consiglio regionale sardo si accoda al concetto magico della “zona bianca” “conquistata” dai sardi.

3. La gamificazione come meccanismo di governo dell’epidemia

Nello spazio delimitato dal Gioco dei tre colori, a contare è solo il generico “rispetto delle regole” da parte dei cittadini, la minaccia delle restrizioni che pende su essi, e il premio dell’allentamento alle restrizioni che viene agitato dinnanzi a loro.

Questo meccanismo di governo dell’epidemia, risponde in pieno al meccanismo normativo della gamificazione. Ne avevamo avuto modo di parlare un anno fa insieme al collettivo Ippolita: la gamificazione è quel meccanismo attraverso cui “si trasforma ciò che viene descritto come un problema in gioco, o, per meglio dire, in schema di gioco. La ripetizione di un’azione ritenuta corretta viene stimolata attraverso premi, crediti, accesso a un livello gerarchico superiore, pubblicazione di classifiche. Dal punto di vista normativo, invece di punire le infrazioni alle regole, si premia il rispetto delle regole. È una normatività totalmente piena e positiva, priva di dimensione etica, poichè il valore del comportamento, la sua assiologia, è determinata dal sistema, non dalla riflessione personale e collettiva sull’azione stessa. La gamificazione incarna la società della prestazione” (Si veda: Ippolita, Anime elettriche, Jaca Book, Milano, 2016, p.99).

In realtà, la presenza di penalità affianco ai premi non cambia di molto la situazione, anche se certamente possiamo notare come l’ingresso nello spazio del Gioco dei tre colori corrisponda ad un notevole ridimensionamento dello spettacolo repressivo montato dalle forze dell’ordine, rispetto al lockdown di marzo 2020. L’enfasi del discorso sull’epidemia è nettamente spostata verso il premio della restituzione di alcune libertà, specialmente con la predisposizione della “zona bianca”, e semmai la difesa di questo “riconoscimento”, piuttosto che sulla mera repressione poliziesca.

Lo spazio del gioco si presenta come lo spazio di un agire semplificato, nel quale si isola un obiettivo determinato e un set limitato di azioni consentite per arrivarci. Il tutto è codificato nelle regole, la cui accettazione è costitutiva dello spazio di gioco. La discussione sulle regole del gioco è al di fuori dello spazio di gioco. In questo senso il gioco si distingue da altre attività sociali, e dall’attività politica in generale, ed è per questo che la gamificazione risulta un meccanismo particolarmente subdolo. D’altra parte, come diceva Johan Huizinga, “Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più un gioco. Tutt’al più può essere la riproduzione obbligata di un gioco” (Si veda: Johan Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Milano, 1946, p. 15). Questa riproduzione obbligata di un gioco è la gamificazione, in quanto gioco coercitivo, le cui regole sono stabilite da chi predispone lo spazio di gioco, e agite da chi in quello spazio è convogliato, più o meno forzosamente.

La predisposizione dello spazio di gioco, avviene in una maniera il più possibile atta a offuscare le responsabilità politiche insite nella predisposizione di un qualsiasi sistema di regole. La definizione di parametri numerici fissi offre una base di raffronto presuntamente certa, in grado di offrire una buona impressione comunicativa di oggettività “scientifica”. Il potere intrinseco di chi definisce lo spazio di gioco si irrobustisce attraverso l’esoterica formulazione matematica di un algoritmo, assumendo l’aura di inesorabile imparzialità che si riconosce all’automatismo tecnico dei numeri.

In realtà, anche in questo caso, come per tutta l’epidemia, dietro la facciata del Comitato tecnico scientifico, e la predisposizione di indici e algoritmi di calcolo da parte dell’Istituto scientifico Bruno Kessler, vi è una precisa responsabilità politica. Tutti i meccanismi di occultamento delle responsabilità politiche: la mistica della cifra e dell’algoritmo, la strategia oggettivante del comitato di esperti scientifici, collassano dietro un sistema che in definitiva è frutto palese di un compromesso politico tra istituzioni dello Stato: governo e conferenza delle regioni. Un compromesso che lascia alle regioni la responsabilità di fornire i dati, e al Ministro della sanità la firma definitiva sui decreti che definiscono la fascia di rischio regionale. La firma finale fa testo: la determinazione delle fasce di rischio è un atto politico di responsabilità del governo, non un atto tecnico di responsabilità di improbabili comitati scientifici.

La gran parte dei giornalisti si è fatta abbagliare per mesi dallo specchietto per allodole dei “tecnici”, senza mai provare a comprendere le ragioni e i percorsi politici del processo decisionale inerente il Covid-19. In questo caso vediamo la recriminazione piuttosto ridicola contro i “numeri senz’anima” di Luca Rojch su La Nuova Sardegna, il 30 gennaio, all’inizio della seconda settimana di “zona arancione”. Non sono i “tecnici del governo”, ma la legge emanata da quel governo a dire che le “zone” possono variare in senso migliorativo solo dopo due settimane. D’altra parte, come vedremo più sotto, non sono stati tanto i numeri, quanto una scelta precisa del governo, a mandare la Regione in “zona arancione”.

Il sistema di compromesso politico tra governo e regioni, è stato costruito per consentire alle regioni di giocare con i dati, per esempio con il dato dei “ricoveri per Covid-19 in area medica”, allestendo reparti Covid in reparti non afferenti l’area medica (ovvero al di fuori dei reparti di geriatria, pneumologia, medicina interna e malattie infettive). La chiusura del Pronto Soccorso di Oristano per intere settimane, trasformato in reparto Covid, ha certamente aiutato la Regione Sardegna a mantenere un dato positivo rispetto a questo indicatore, tra novembre e dicembre, mentre privava un bacino di 100.000 abitanti di un servizio di medicina d’urgenza! A prescindere dal fatto che ciò sia avvenuto per il caos dell’emergenza, o per dolo, cosa che non sappiamo, è evidente che l’indicatore scelto politicamente non restituiva la realtà dell’emergenza sanitaria nei mesi di novembre e dicembre in Sardegna. Lo stesso può dirsi per innumerevoli altri contesti in tutta la Sardegna (e sicuramente anche altrove), laddove interi reparti ospedalieri non di area medica, e talora interi ospedali, venivano riconvertiti a reparti per degenti Covid, o chiusi a singhiozzo per sospetti casi di Covid. Per molti versi, d’altra parte, questo è vero anche ora, considerando che rimangono interi ospedali dedicati esclusivamente al Covid, e il Sistema Sanitario è ben lontano dal fornire i servizi essenziali alla popolazione.

Altri meccanismi di gioco con i dati che sono stati consentiti, possono essere l’autodichiarazione di reparti di terapia intensiva presenti solo sulla carta (con cui tutte le regioni stanno ampiamente giocando o hanno giocato, Regione Sardegna compresa), o la gestione temporale del flusso dei dati sui tamponi positivi in modo da tentare di gestire il dato numerico dell’indice Rt. Il Gioco dei tre colori è stato fornito ai presidenti di regione in una edizione premium, che incorporava alcuni trucchi a disposizione per consentire qualche scappatoia rispetto alla ghigliottina delle penalità. Le penalità, d’altra parte, non sono mai state automatiche come si vorrebbe fare credere: tra novembre e dicembre la Regione Sardegna è stata per settimane in “Classificazione complessiva di rischio” alta, nei rapporti di monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità, per tutta una serie di fattori tra cui l’intasamento dei reparti di terapia intensiva, superiore al fatidico 30% dei posto disponibili, il ritardo nella fornitura dei dati sui tamponi, la scarsa capacità di tracciamento dei contatti, la presenza di focolai, ma non è mai uscita dalla “zona gialla”.

Come si può facilmente notare da questo grafico visibile sul Portale Covid-19 dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (https://www.agenas.gov.it/covid19/web/index.php?r=site%2Fheatmap), la Sardegna ha sforato per settimane il limite del 30% di occupazione dei Posti Letto in Terapia Intensiva, tra novembre e dicembre.

L’enfasi del ministro Speranza, di fronte alle proteste dei presidenti “declassati”, sul fatto che “i dati li forniscono le regioni”, d’altra parte, è stata un modo sottile per ricordare ai presidenti di regione il compromesso politico alla base del Gioco dei tre colori, e tra le righe ci dice che i trucchi a disposizione non sono un errore del sistema di gioco, ma una sua funzione. D’altra parte, essendo comunque trucchi, l’uso di questa funzione mette i presidenti di regione in una posizione subordinata, consentendo al Governo un buon margine di arbitrario nella definizione delle zone. Questo è avvenuto tra novembre e dicembre con la permanenza della Sardegna in zona gialla, ed è avvenuto a gennaio con il passaggio della Regione Sardegna in fascia arancione, in un contesto sanitario certamente meno grave di quello di novembre dicembre (sebbene non certo di normalità): segno che quella di gennaio era più una “paterna” lezione politica ad una giunta regionale che aveva giocato troppo a lungo con la trasmissione dei dati (vantandosi troppo, politicamente, dei propri inesistenti “risultati”), che un provvedimento sanitario dettato da una strategia chiara di gestione dell’epidemia.

D’altra parte, il continuo cambiamento delle regole da parte del Governo ci pone di fronte al massimo dell’arbitrio possibile, in un contesto in cui la ratio dei provvedimenti, ormai da diversi mesi, risulta sempre più confusa, e sembra davvero più rispondere all’esigenza spettacolare di rinnovare il format del gioco a premi, magari per segnare una qualche discontinuità tra la conduzione Draghi e la conduzione Conte, più che a qualsiasi strategia di politica sanitaria.

4. Conclusione: un gioco che è soprattutto un passatempo

In definitiva, il Gioco dei tre colori si svolge in un campo di variabili correlate in maniera assai blanda al funzionamento generale del Sistema Sanitario, che viene ridotto alla mera rappresentazione (distorta) della gestione del Covid-19, e ad un set di azioni la cui correlazione al controllo dell’epidemia risulta semplicemente sconosciuta, e affidata a considerazioni di mero senso comune. Attraverso la generazione delle differenti fasce di rischio, si crea un contesto di relativizzazione delle limitazioni alla libertà collettiva che facilita l’assuefazione allo stato di cose presente: la “fascia bianca” per qualche giornalista diventa addirittura un assurdo “ritorno alla normalità”, come se la normalità fosse riducibile ad una cena al ristorante, col coprifuoco alle 23,30 e il distanziamento sociale obbligatorio, con interi ospedali chiusi per Covid, e moltissimi servizi sanitari di base completamente saltati! Allo stesso tempo si costituisce uno spazio del discorso pubblico completamente orientato sul nesso tra comportamento collettivo e punizione-premio dell’inserimento in una data fascia di rischio, che inghiotte ogni altro discorso pubblico sull’epidemia e la sua possibile gestione politica.

Così, in un contesto nel quale, sin dalla prima battuta, si è motivato le restrizioni alle libertà civili con la necessità di garantire la tenuta del Sistema Sanitario Nazionale, a sparire dal discorso pubblico è proprio la situazione reale del SSN, le responsabilità politiche sulla sua gestione, ma anche in generale qualsiasi discorso compiuto su una reale strategia di politica sanitaria. Il sistema sanitario ricompare sporadicamente solo nell’apice delle ondate epidemiche, in maniera pornografica, come argomento ultimo in favore del lockdown. Per tutto il resto del tempo, le questioni sanitarie sono relegate nelle cronache locali, e viene così coltivata una assurda illusione di “normalità”, come se non ci fosse nulla da segnalare.

Di fatto, è proprio questa strategia dell’offuscamento mediatico attraverso la gamificazione, della dilazione in attesa di una soluzione tecnica che lasci intatto il sistema così com’è, la politica sanitaria che da un anno a questa parte si segue in Italia: non potendo evitare la tragedia a causa dell’indebolimento trentennale del Sistema Sanitario Nazionale, si è deciso di abitarla, arredarla, decorarla, confidando nell’assuefazione collettiva alla quotidianità del vivere. Non potendo garantire soluzioni tempestive senza mettere in discussione un ordine politico ferocemente orientato al profitto privato di pochi, e alla privatizzazione dei beni comuni (sanità in testa), si tergiversa. E per passare il tempo, si sa, non c’è niente di meglio che organizzare un gioco.

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