“Ccà nisciuno è fesso”

Ovvero l’apprendimento della lezione del neoliberismo da parte delle nuove generazioni di Antonio Monopoli

di Antonio Monopoli

È cronaca di questi giorni l’atteggiamento di molti giovani che rifiutano delle offerte di lavoro perché ritenute non sufficientemente gratificanti da un punto di vista economico. Al contempo i giornali riportano numerose notizie di posti di lavoro altamente qualificati che non trovano chi voglia concorrere ad essi o addirittura di vincitori di concorso pubblico che rifiutano il posto di lavoro pur avendo conquistato il diritto ad esso. Questa condizione sembrerebbe, in maniera paradossale, entrare in conflitto con la situazione di crescente impoverimento della popolazione. Ci si chiede quindi com’è possibile che in una situazione di necessità di lavoro la gente rifiuti di lavorare.

Si potrebbero fare certamente numerose ipotesi, analisi e ricerche su questa questione ma oggi voglio proporre una lettura semplice, ma mi auguro non semplicistica, sia pur limitata ad una specifica angolazione, di questo fenomeno. Dobbiamo partire dall’idea di lavoro che noi abbiamo e che fino a qualche anno fa si associava con il concetto di “sistemazione”; In altre parole l’idea che noi associavamo al fatto che una persona avesse preso un posto di lavoro era quella di aver trovato una stabilità economica che gli consentisse di realizzare gli obiettivi, almeno basilari, della propria esistenza e che semplificando al massimo poteva identificarsi con l’avere una propria abitazione e poter realizzare l’eventuale progetto del formarsi una famiglia e del potere mantenerla.

Verosimilmente il problema dell’attuale rifiuto delle offerte di lavoro nasce dallo scollamento tra la remunerazione offerta e la possibilità di realizzare attraverso essa questi obiettivi. In altre parole oggi il lavoro offerto spesso non garantisce più una sicurezza economica. Se volessimo usare un termine più tecnico potremmo dire che l’importo dei salari che viene offerto è “fuori mercato”.

Questo atteggiamento psicologico da parte delle persone potrebbe, in un certo senso, essere considerato come un effetto dell’eterogenesi dei fini legato alla diffusione della cultura neoliberista. Questa cultura che ormai da molti anni vorrebbe insegnarci che il mercato si autoregola e che quindi lo Stato non deve intervenire a calmierare o riequilibrare le dinamiche che in esso si formano, è stata acquisita anche dalle nuove generazioni di potenziali lavoratori i quali di fatto non fanno altro che esprimere ciò che il mercato ha loro insegnato. In altri termini la pianificazione finanziaria non è più, semmai lo sia stata, esclusività delle forze politiche e delle aziende ma, e questo di per sé è una conseguenza naturale, è stata fatta propria anche dalle persone che attraverso il mainstream quotidianamente assorbono la cultura neoliberista.

Quello che si evidenzia in questa situazione che si è venuta a creare è il paradosso del libero mercato in cui ciascuno cerca il massimo rapporto tra costi e benefici creando una condizione di evidente conflitto tra un’offerta economicamente povera e un’ aspettativa di vita gratificante da parte della popolazione. Questo evidenzia anche un altro aspetto e cioè una differente visione del significato del lavoro da parte del potere economico finanziario rispetto alla visione dei cittadini.

Il considerare il lavoro alla stregua di un qualsiasi altro strumento per la produzione aziendale, affermazione questa facilmente dimostrabile se consideriamo che le aziende hanno sistematicamente proceduto al ripianamento dei conti mediante il licenziamento di dipendenti al fine di ridurre il costo del lavoro, non può che essere confliggente con il considerare il lavoro una maniera di realizzarsi nella propria esistenza sia da un punto di vista economico che possibilmente da un punto di vista dell’espressione dei propri talenti. In altri termini il conflitto culturale consiste nel considerare l’essere umano soggetto del lavoro oppure semplice strumento in funzione degli obiettivi aziendali. La differenza è sostanziale perché se l’essere umano è soggetto del lavoro l’organizzazione aziendale e la ridistribuzione del reddito che essa produce deve essere “in funzione della persona” (cosa del resto prevista dalla nostra Costituzione) e non può essere strutturata al fine della assoluta massimizzazione dell’utile aziendale.

Quello che Il neoliberismo ha insegnato alle persone è che se il reddito che deriva da un lavoro non è adeguato al sacrificio che richiede non ha senso lavorare. Verosimilmente il motivo per cui questa crisi del sistema si presenta oggi nasce dal fatto che un tempo i salari offerti erano, in proporzione alle attese e alle esigenze delle persone dell’epoca, più adeguati anche se oggi potremmo considerare quelle vite vissute in una condizione di relativa povertà rispetto, e qui casca l’asino, alla visione che abbiamo attualmente del minimo di livello di vita accettabile.

Quello che le persone stanno manifestando con il loro rifiuto di proposte lavorative con remunerazione economicamente non gratificante è in un certo senso proprio il riequilibrio del sistema che il mercato reclama anche nei confronti del potere economico finanziario. Non esistono solo le imprese, non esistono solo i conti dello Stato, non esiste una visione teorica del benessere basato sul PIL, ma si evidenzia un fatto semplice e cioè che il bisogno del singolo viene ad essere rivendicato mediante una dinamica coerente con le regole del mercato stesso. In altre parole semplici e crude nella loro concretezza, se si desidera avere delle persone alle proprie dipendenze occorre pagarle, lì dove pagare una persona significa dare ad essa la possibilità di realizzare mediante l’importo quantitativo del proprio stipendio le ha aspirazioni verso le quali l’attuale società ha creato delle attese, e la cui realizzazione viene, oggi, considerata come il livello di vita a cui si ritiene di avere diritto.

Le regole del neoliberismo, quindi, vengono rivendicate anche dai singoli cittadini, è il rovescio della medaglia cui forse chi pensa di detenere il potere non aveva pensato.

Intendiamoci, i rapporti di forza non sono uguali, ma va considerato anche il potere di una cultura socialmente diffusa che sta reagendo rispetto al sostanziale tentativo di schiavizzazione degli individui. Le potenzialità di sviluppo di questa situazione sono molteplici si potrebbe arrivare ad un grande conflitto sociale. Si potrebbe prospettare l’idea di ridurre i diritti delle persone finanche a giungere al cercare obbligarli a lavorare indipendentemente dall’importo dello stipendio oppure all’estremo opposto orientarsi verso una maggiore giustizia sociale che necessariamente dovrebbe passare per una adeguata redistribuzione della ricchezza. Questo discorso ci porterebbe lontano e magari potremo affrontarlo in un prossimo articolo.

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