Il mattone a Milano è sempre più business e meno solidarietà

La volontà di organizzarsi insieme viene repressa con arresti e tribunali. Continuiamo a fare politica

Quartiere Gianbellino a Milano

Nel dicembre 2018 un’operazione repressiva condotta con grande clamore mediatico portava a sgomberi di case occupate e dello spazio «Base di solidarietà popolare» nel quartiere ALER a Giambellino, Milano. Avvenivano anche numerosi arresti preventivi che, per alcun*, si protraevano fino all’estate del 2019.

L’operazione era mirata ad interrompere l’attività di lotta del Comitato Abitanti Giambellino Lorenteggio, attivo in quartiere da alcuni anni.

Nelle scorse settimane c’è stata la sentenza di primo grado, con condanne molto alte, alcune addirittura raddoppiate rispetto alla richiesta del PM.

Cominciamo con la storia: quando e per quanto tempo il Comitato ha svolto attività in Giambellino?

Il Comitato è nato nell’autunno 2014. In quel periodo un gruppo di compagni e compagne che già si conoscevano e avevano esperienze di vita e di lotta comuni si trovò a vivere in Giambellino e cominciò a conoscere il quartiere, le persone che ci abitavano, le sue particolarità, la sua storia.

Era una piccola frontiera all’interno della città di Milano, una zona abbandonata a sé stessa da tutti i punti di vista.

Come per tutte le periferie della città quello che saltava agli occhi era il problema delle case popolari. A Milano quelle lasciate vuote da ALER — e per vuote si intende disabitate e rese inagibili — sono circa 10000, a fronte di 20000 famiglie in lista di attesa per impossibilita di sostenere i costi degli affitti “di mercato”.

In Giambellino le case di proprietà ALER sono molte, in particolare il quadrilatero composto dalle vie Giambellino, Odazio, Lorenteggio e Inganni è tutto di palazzi di edilizia residenziale pubblica.

Tantissime di queste sono vuote, molti palazzi necessitano di interventi strutturali di manutenzione. In un contesto del genere, come è ovvio, l’unica soluzione per molte famiglie o individui poveri, che non hanno la possibilità di stare al passo con Milano, è quella di occupare.

Nel 2014 avevamo appena cominciato a conoscere da vicino questa realtà quando vi fu un’improvvisa accelerazione: Regione Lombardia lanciò un grande piano di sgomberi di appartamenti occupati, accompagnandolo con una insistente fanfara mediatica sulla necessità di fare “pulizia” dell’illegalità, ovvero, come sempre accade da parte delle istituzioni, affrontando l’emergenza abitativa non come un problema sociale ma un fatto criminale. Questo piano incontrò una resistenza inaspettata da parte degli abitanti delle periferie milanesi, con momenti di protesta agli sgomberi, cortei, fiaccolate, assemblee. Da quella mobilitazione e dagli incontri che ne scaturirono nacque l’idea di fondare il comitato degli abitanti del quartiere. Da lì in poi cominciò la nostra attività, che si articolò in tante forme fino agli arresti del dicembre 2018, quando la procura di Milano ci accusò di essere un’associazione a delinquere.

Oltre alla tematica “casa” vi occupavate di tante altre situazioni e problematiche, quali in particolare?

Il comitato era composto da tante persone diverse, ognuno con proprie sensibilità. La volontà comune non era solo quella della lotta più direttamente politica, che ovviamente prendeva tanto spazio e riguardava la questione abitativa. In generale, nel corso del tempo si è provato a voler fare del quartiere un luogo di vita anche dove le difficoltà economiche lo rendevano inabitabile. Per questo il tessuto del comitato era fatto anche della concretezza delle esperienze e delle capacità di chi lo animava.

Nel corso degli anni abbiamo costruito varie situazioni: il recupero e una redistribuzione del cibo e poi una mensa settimanale dove si poteva mangiare a poco prezzo; il doposcuola per bambini, che molto spesso provenivano da famiglie straniere che non potevano aiutarli nei compiti; una squadra di calcio, un ambulatorio medico sul modello di quello di via dei Transiti (in Giambellino, tra l’altro, a quanto ci risulta oggi non c’è più nemmeno il medico di base); feste e momenti allegri in un luogo che è privo anche di ogni possibilità di svago.

Tutte queste attività riguardavano da un lato la volontà di autorganizzarsi e attraverso la solidarietà riempire quei vuoti che la macchina economica della metropoli lascia, e dall’altro il fatto reale di condividere la vita, di prendere in mano le nostre necessità e i nostri bisogni e provare a spezzare una solitudine che riguarda tutti ma che probabilmente in quartieri come Giambellino si sente ancora di più. Tutto questo tra l’altro, bisogna sempre ricordarlo, non era organizzato “dall’esterno” ma era fatto dalle stesse persone che in Giambellino ci vivevano, ci dormivano la notte e passavano il tempo di giorno. In un quartiere dove mancava tutto volevamo dimostrare che è possibile, organizzandosi insieme, cambiare qualcosa nella materialità delle nostre vite.

Com’era il contesto del quartiere quando avete cominciato l’intervento come Comitato e com’è ora?

Come si diceva prima, Giambellino è un po’ un esempio — ovviamente non l’unico — di come i quartieri di periferia siano sostanzialmente abbandonati a loro stessi. Della questione delle case abbiamo già detto, ma in generale nel quartiere non c’era sostanzialmente quasi niente a disposizione degli abitanti. Quello che abbiamo potuto osservare da vicino è l’inizio di una grande trasformazione, che probabilmente durerà ancora tanto tempo, con l’arrivo dei lavori per la nuova metropolitana, la linea 4 che avrà un capolinea proprio nel quartiere. Questo è significativo perché ha dato il via a un processo di “riqualificazione” che però, finora, si è concretizzato solo nell’abbattimento di alcuni palazzi ALER, senza garanzie su che genere di case verranno poi ricostruite, con che prezzi e destinate a chi. Non possiamo sapere cosa succederà, ma il fatto è che anche adesso, dopo anni di proclami da parte di varie figure politiche (il sindaco, gli assessori ecc.) Giambellino è nella stessa identica situazione di prima per quanto riguarda le case, le infrastrutture, la miseria. L’impressione è che sia un quartiere che deve essere lasciato marcire, in attesa che con la metropolitana la gentrificazione possa fare il suo corso.

Come è avvenuto l’intervento repressivo, poliziesco prima e giudiziario poi? C’è stata molta enfasi nell’uso del termine “racket”, anche negli articoli sui giornali di questi giorni.

Noi siamo stati arrestati nel dicembre del 2018, con gran dispiegamento di forze e l’opportuna grancassa mediatica. Ci fu una conferenza stampa del Procuratore e i giornali poterono utilizzare le nostre intercettazioni ancora prima che fossero a disposizione degli avvocati difensori.

È significativo ricordare che in occasione di quell’operazione non ci furono solo i domiciliari per alcuni di noi e gli sgomberi (tra l’altro di case che ancora oggi sono vuote), ma anche la volontà dei carabinieri di spaventare tutti coloro che facevano parte del comitato, minacciandoli implicitamente o esplicitamente delle conseguenze cui sarebbero andati incontro.

Da subito la Procura dovette ammettere che, nonostante l’accusa fosse di associazione a delinquere (con una trentina di altri capi d’imputazione annessi, tutti legati a occupazioni di case o resistenze agli sgomberi), non c’era stato alcun lucro né giri di soldi interni al comitato, e tutto si era svolto per solidarietà. Ciononostante loro e soprattutto i giornali giocarono volontariamente con l’ambiguità della situazione e spesero più volte il termine racket, in perfetta malafede.

In generale sul fenomeno del racket, poi, bisogna fare alcune precisazioni. Non c’era in Giambellino, o quantomeno noi nella nostra esperienza non abbiamo mai visto, un racket strutturato, ovvero persone che mantengono il controllo del territorio e occupano case vuote a pagamento istituendo una sorta di para-amministrazione. Queste cose esistono di certo nella città, ma nel quartiere noi non ne abbiamo incontrate. C’erano e probabilmente ci sono persone che si svoltano la giornata sfondando una porta, situazioni di micromalavita che sorgono e prosperano nella disperazione. Il comitato è sempre stato contro ogni forma di speculazione sulla povertà, compresa quella del racket. Il punto è, e lo abbiamo spesso ripetuto nei cortei, nei manifesti, quando parlavamo con la gente del quartiere, che l’unico modo per eliminare il racket è sia che le case possano essere tutte abitate, sia proprio la presenza di situazioni di solidarietà e mutuo appoggio come potevano essere quelle del comitato, che spezzando la solitudine delle persone rendono meno forti tutte quelle strutture, grandi o piccole, che si approfittano della povertà altrui.

L’operazione mediatica ma anche giudiziaria è stata quindi da subito cancellare la connotazione politica dell’attività del comitato per ridurla appunto a “racket delle occupazioni ” o associazione a delinquere… Come scriveva qualcuno “la prima associazione a delinquere no profit della storia”.

La particolarità di questo processo è questa: il Comitato di Giambellino è stato rappresentato come un’associazione a delinquere. Non una associazione sovversiva, ma proprio un sodalizio criminale, i cui scopi però, l’accusa stessa lo riconosce, erano politici e privi di fini di lucro.

Ora dovremo vedere quali sono le motivazioni che i giudici daranno alla nostra condanna, ma un paio di elementi che abbiamo potuto osservare nel corso del dibattimento meritano di essere sottolineati. Da un lato la Corte, solidale in questo con l’accusa, non ha voluto sapere niente del contesto sociale ed economico del Giambellino, ha ribadito a più riprese che non era oggetto del processo cosa stesse succedendo in quegli anni, quali fossero le condizioni delle case, le responsabilità di ALER, o le storie personali di chi aveva occupato. Il diritto è sempre un’astrazione dalla vita reale, e in questo caso si è visto in maniera lampante. Ogni volta che si è provato a portare elementi concreti del contesto la risposta dei giudici sostanzialmente è stata “Non ci interessa, non ci riguarda, non veniteci a raccontare cosa succeda nel mondo reale perché non lo ascolteremo”. L’altro è un passaggio della requisitoria del PM che forse svela quale sia, per l’accusa, il punto centrale della vicenda. Il pubblico ministero, bontà sua,  riconosceva che non vi fossero fini di lucro, che l’esperienza del comitato fosse basata sulla solidarietà reciproca, che non vi fossero nemmeno strutturazioni gerarchiche o piramidi di comando interne a questo sodalizio, ma che ciò che contava fosse la volontà di organizzarsi, testimoniata dalle nostre telefonate, dalle assemblee, dalle prove della vita comune che in quegli anni c’era nel quartiere. Insomma, era il fatto stesso di voler essere un comitato, di voler lottare insieme, di darsi mezzi e parole condivise a rappresentare un reato associativo. E non sembra essere una questione che riguarda solo noi se si dà un’occhiata a quello che sta succedendo negli ultimi tempi, con il proliferare di accuse simili ai sindacati di base o ad altre esperienze politiche di varia natura in tutta Italia.

È la possibilità e la volontà stessa di organizzarsi insieme che viene messa sotto attacco in processi come questo.

Intervista di Tundra tratta da: https://www.labottegadelbarbieri.org/milano-le-case-occupate-i-processi-e-il/

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