1990 – La legge Amato Carli (218/90)

Inizia la privatizzazione delle banche italiane

Vendesi banche, industria piccole e grandi, ospedali, scuole, servizi e acqua italiana

di Guido Grossi

Io c’ero. L’ho vissuto da dentro il processo di privatizzazione di una grande banca italiana: la Banca Nazionale del Lavoro. Allora, uno dei sei istituti di credito di diritto pubblico; oggi, privata; e francese.

Nel 1990 il sistema bancario italiano è ancora composto per il 57% da banche pubbliche, proprietà dello Stato o degli enti locali. Si tratta dei sei istituti di credito di diritto pubblico, delle tre banche di interesse nazionale e delle casse di risparmio. Tutto il territorio nazionale è ampiamente coperto. Per un altro abbondante 18% la proprietà è comunque ben diffusa fra la popolazione a livello locale nelle banche popolari e nelle casse rurali ed artigiane: un altro modo di concepire il settore “pubblico” che coinvolge direttamente gli interessi della popolazione. Il settore strettamente privato (grande capitale concentrato) esiste, a garanzia di libertà e pluralità, e rappresenta poco più del 20%.

Era sbagliato?

Intanto, era coerente con la Costituzione, che richiede esplicitamente allo Stato di tutelare il risparmio dei cittadini e di indirizzare, coordinare e controllare l’esercizio del credito. Roba importante per il buon funzionamento dell’economia. Inoltre, era estremamente funzionale al sistema economico italiano, con le sue piccole imprese sottocapitalizzate e quindi bisognose di credito. Nota bene: le grandi banche pubbliche offrivano alle piccole e medie imprese non solo il credito, agevolato se in coincidenza con l’interesse pubblico, ma anche un’ampia serie di servizi necessari ad affrontare mercati internazionali sempre più competitivi.

A un certo punto, fine anni Settanta, il sistema mediatico inizia a martellare nell’immaginario collettivo un dubbio velenoso: la gestione pubblica (di qualsiasi servizio, non solo delle banche) è corrotta e sprecona. Vengono proposti sistematicamente, senza alcuna spiegazione, concetti quali “enti inutili”, “carrozzoni pubblici”, “dipendenti pubblici assenteisti e privilegiati”, “contrapposti ad una non meglio specificata ma comunque osannata “efficienza dei mercati” (guarda caso: è il tempo delle tv private!). Concetti offerti a pranzo cena e colazione, per anni e anni, fino a percolare e distorcere la percezione nell’immaginario collettivo.

Come si misura l’efficienza? Elementare, Watson: guardando al conto economico! Se spendi più di quanto guadagni, sei inefficiente. Apparentemente non fa una piega, o no? Beh… dipende. Se sei un soggetto privato e metti su un’impresa per guadagnarti da vivere, allora è chiaro che se spendi più di quanto guadagni fallisci. Quel tipo di efficienza è irrinunciabile. Ma se sei un ospedale? Una banca? Una scuola? Mica si mettono su queste cose per guadagnarsi da vivere. L’obiettivo è ben altro, e nessuna persona di buon senso può dubitare che un ospedale si dovrebbe mettere su per garantire la salute dei cittadini, non per fare soldi; una scuola per garantire l’istruzione; come una banca per garantire il risparmio e il credito. Attenzione: paghiamo le tasse appositamente per sostenere la spesa pubblica necessaria a garantire i servizi pubblici alla popolazione. Quindi un ospedale, una scuola, ma anche una banca, non devono far altro che spendere i soldi raccolti con le tasse per garantire il servizio. Nota bene: a tutti! Non solo a chi può pagare. Che non debbano sprecare risorse pubbliche nella gestione è sacrosanto. Ma da qui a ritenere che debbano fare profitti per essere considerati efficienti… bisogna essere ciechi (o in mala fede).

Il sistema mediatico (sempre più privato) ci ha invece gradualmente indotto a pensare acriticamente all’alternativa pubblico/privato quasi esclusivamente in termini di “efficienza finanziaria”, ingoiando sempre più profondamente il mantra: “il pubblico spreca, il privato è efficiente”. Scordandoci però della cosa più importante: la “funzione pubblica”; la qualità e la diffusione del servizio pubblico; l’utilità sociale; tutto oramai completamente subordinato ad un profitto privato, misura di efficienza.

A cosa serve una banca? Serve a fare soldi? Oppure a tutelare il risparmio dei cittadini e a selezionare “opportunamente” gli investimenti (come fra l’altro ordina la Costituzione)? È importante osservare come il cambio di prospettiva modifichi i criteri di scelta. Quale criterio va usato per capire se un investimento che chiede finanziamenti è “opportuno”? È opportuno se produce soldi oppure lo è se produce utilità sociale? Siamo sufficientemente consapevoli che esiste una montagna di attività che produce soldi ma come effetto collaterale distrugge il bene sociale? Una per tutte: pensiamo alla produzione di armi, che oltretutto diventa economicamente efficiente e sostenibile solo se si fanno guerre a sufficienza… Efficiente è un servizio pubblico che garantisce la soddisfazione dei bisogni dei cittadini, non la soddisfazione dei bisogni degli investitori che sono interessati solo a guadagnare soldi (e va bene pure se sono necessarie le guerre, pur di guadagnarli, ‘sti maledetti soldi). Eppure, ancora oggi, giornali e tv continuano a dare per scontato che l’efficienza nella gestione dei servizi si misuri guardando solo al risultato economico.

È in questa atmosfera che viene concepita e sdoganata la legge Amato Carli del 1990, seminata in un terreno accuratamente dissodato e concimato. “Seminata”, perché in realtà è solo di un piccolo seme che si tratta, destinato a produrre però molti frutti nei decenni successivi (profitti privati, per pochi).

Non entriamo nei dettagli della norma e veniamo al nocciolo: l’essenza di quella legge è tutta nella trasformazione della forma. Niente più “Enti pubblici” ma Società per azioni anche se, bada bene, al momento la proprietà delle azioni resta pubblica, strettamente controllata dal Tesoro. Per le casse di risparmio lo strumento è la Fondazione ma il risultato non cambia (diventa solo più distorto).

Sembra che non sia cambiato nulla: tutte le azioni sono in mano allo stesso proprietario (il Tesoro) eppure, bisogna mettere il naso in certi accadimenti poco evidenti ma drammaticamente importanti per capire cosa accade in profondità. Per il solo fatto di essere diventata S.p.a., la banca modifica il suo atteggiamento di fondo: l’ossessione del risultato economico cala dall’alto e si distribuisce a tutti i livelli, lentamente ma inesorabilmente. Questo aspetto della lentezza è importante: il senso del cambiamento degli obiettivi non può essere percepito, ma accade, e si modifica fino al punto di riuscire a prendere il sopravvento sulla qualità del servizio. Se fino a quel momento la banca ti pagava lo stipendio per il tuo contributo alla tutela del risparmio ed alla selezione del credito, da quel giorno in poi ti paga lo stipendio per il tuo contributo al risultato economico.

Prima con sistema grezzi: ti viene indicato un obiettivo di risultato economico anche se gli strumenti per misurarlo sono rudimentali. Ma sin da subito al raggiungimento dell’obiettivo viene collegato un premio. Un piccolo premio. Poi, negli anni, gli strumenti diventano sempre più raffinati, e i premi sempre più importanti.

Ci sono due conseguenze spiacevoli in un sistema che diventa sempre più premiante. Primo: arriva la competizione interna, fra colleghi. Premi e carriera non sono per tutti, e se sono legati al raggiungimento degli obiettivi economici il raggiungimento individuale del proprio obiettivi diventa ossessivo. Non importa più che un risultato comunque importante per la banca o per i colleghi o per i clienti sia raggiunto. Se non fa parte dei tuoi obiettivi individuali, e sottrae energie a quello sforzo, passa inevitabilmente in second’ordine, almeno nella stragrande maggioranza dei casi (persone coscienziose esistono sempre, ma il sistema tende ad emarginarle, quindi diventano l’eccezione). Secondo: se si può limare il costo del servizio o arrotondare il suo ricavo, anche a scapito della qualità, la tentazione cresce in misura proporzionale all’importanza crescente del sistema premiante. Un articolo dell’Economist, se non erro del 2005, riporta il livello medio dei premi annuali ricevuti dal personale del settore finanziario della Goldman Sachs: 500.000 sterline! C’è chi si vende la madre per cifre simili, o no?

Ora puoi cominciare a capire perché nel mondo della finanza, dove il sistema premiante è più spinto che in altre aree, gli strumenti derivati si trasformano sempre più da strumenti concepiti per gestire i rischi finanziari a strumenti strutturati essenzialmente per non permettere alla clientela di percepire e misurare rischi e prezzi. Ottimi per abbindolare un risparmiatore disposto a mettere i propri zecchini nell’orto dei miracoli! E capisci anche perché diventa possibile che i premi medi siano così alti. Non è che lì erano tutti geni…

Tutela del risparmio? Nossignore: il risparmiatore entra nel mirino del “personal banker”, in qualità di “fonte di ricavo sicuro”.

Non so dire se certe esasperazioni (che fra l’altro hanno portato alla crisi dei mutui subprime ed al gonfiarsi della bolla speculativa più grande della storia dell’umanità… che ancora deve scoppiare…), ma è certo che la cultura della competizione e l’ossessione del profitto privato facciano oggettivamente a cazzotti con l’interesse delle popolazioni, e con la qualità dei servizi essenziali.

Come sia possibile che giornalisti e politici riescano sistematicamente ad ignorare un conflitto di interesse così evidente è un mistero. A meno che, non si prenda in considerazione l’ipotesi che un analogo conflitto possa coinvolgere anche loro… Ecco, se la smettessimo di essere ipocriti e accettassimo con umiltà l’idea che siamo intrinsecamente fragili, forse porremmo più attenzione ad evitarli, i conflitti d’interesse, che quelli sono tanto potenti sull’animo umano, quanto devastanti per la collettività.

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3 Commenti

  1. Sempre chiaro.
    E grandissimo. Perché non dice che da quel sistema premiale si è subito completamente sganciato.
    Sono onorata di aver incontrato sulla mia strada Guido Grossi.

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